was

Anno 2 Numero 62 Mercoledì 11.06.03 ore 23.45

 

Direttore Responsabile Guido Donati

 

Responsabilità del medico che non rileva malformazione del feto e diritto all’aborto 

 

di Anna Maria Daniele  

 

L’aborto e il suo diritto sono temi di grande attualità. La giurisprudenza, in questo senso, è copiosa e ricca di grandi spunti di riflessione. Prima di addentrarci nell’argomento, analizziamo i tratti salienti dell’istituto. Nel 1978, con la l. n.194, è stata disciplinata l’interruzione volontaria della gravidanza. Quest’ultima ha il compito di contemperare il diritto della vita del nascituro con la tutela al benessere fisico, psichico e sociale della donna. La legge, infatti, prevede che l’interruzione della gestazione, per essere ammessa legittimamente, deve intervenire entro 90 giorni dal concepimento. Naturalmente, l’aborto deve essere giustificato dal fatto che un’eventuale prosecuzione di una gravidanza potrebbe comportare un serio pericolo per la salute psico-fisica della madre, in rapporto alle condizioni economiche, sociali, familiari, alle circostanze del concepimento, o anomalie o malformazioni del concepito (art.4). Dopo i primi novanta giorni, può, comunque, essere attuata, ma in presenza di altre circostanze: vale a dire, 1- quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; 2- o quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinano un grave pericolo per la salute fisica e psichica della donna. Un’ulteriore limitazione sopravviene quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto. In questo caso, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso in cui il proseguimento della stessa potrebbe implicare un grave pericolo per la vita della donna (artt. 6 e 7). Da ciò si deduce che esiste un vero e proprio diritto all’aborto, chiaramente nei limiti prospettati dalla legge. A confermare definitivamente l’assunzione di questo diritto a rango di diritto fondamentale della persona umana, è una recente sentenza della Cassazione (10 maggio 2002). La Corte si è potuta esprimere in relazione alla vicenda di due coniugi, il cui figlio era nato affetto da una sindrome invalidante, la c.d. “sindrome di Apert”. Gli stessi avevano portato in giudizio il medico che si era occupato della gravidanza. Il motivo di tale azione risiedeva nel fatto che il medico, non avendo diagnosticato le malformazioni, di cui il figlio risultava affetto, aveva impedito alla stessa di poter scegliere di abortire. Prima di ogni altra cosa, in questa sede processuale si è potuto evidenziare come la relazione che si istaura tra medico e paziente sia di tipo contrattuale. Vale a dire che, nel momento in cui un soggetto si rivolge ad un medico, stipula con questo un contratto di prestazione di opera intellettuale. Questa qualificazione ha una notevole importanza da un punto di vista processuale, soprattutto riguardo ai punti sui quali fondare le prove. Bisogna dimostrare, difatti, le conseguenze dirette e immediate all’inadempimento del medico. Vale a dire che è necessario provare tutti quei danni che il suo adempimento avrebbe evitato. Per chiarezza espositiva e per comprendere l’articolazione successiva delle prove, la sindrome di Apert consiste in una malformazione cranica ereditaria, dovuta a craniostenosi, che si accompagna a malformazione delle dita delle mani e dei piedi (sindattilia). È precisamente una malformazione della testa, appiattita dall’avanti all’indietro e molto sviluppata in altezza, e da concomitante sindattalia. Più comunemente si parla di “mostruosità. Chiarita l’affezione del concepito, la prima cosa da provare è se la presenza di questa malformazione fosse visibile al momento della gravidanza. Ci viene incontro a questo proposito, il consulente tecnico d’ufficio. È questa una figura ausiliaria all’attività del giudice, che offre cognizioni tecniche di cui è carente l’organo giudicante. Nel caso specifico, la perizia (l’atto con cui il tecnico si esprime in un processo) è svolta da un ginecologo. Questi valutando le metodiche di indagine prenatale, ha stabilito che attraverso complesse indagini, a partire dalla dodicesima settimana, si possono riscontrare malformazioni craniche e agli arti. Pur non potendo essere, quindi, le menomazioni accertate nella prima visita (avvenuta all’undicesima settimana di gestazione), certamente sarebbero state visibili nella successiva, compiutasi dopo quattro mesi. Inoltre, poiché c’era stata un’esposizione a fattori teratogeni, valutati con un’anamnesi accurata, vista l’ereditarietà della malattia, sarebbe stato dovere del medico effettuare un esame più ravvicinato. Quello che importa in questa sede, comunque, non è la mancata delineazione del quadro patologico, corrispondente alla sindrome di Aper, ma l’assenza di indicazioni da parte del medico circa la malformazione degli arti e della testa, visibile con gli esami. Da questa affermazione, discende un ulteriore elemento da provare: se il professionista avesse rappresentato alla gestante l’esistenza della malformazione del feto, essa sarebbe stata in grado di determinarsi per l’interruzione della gravidanza? A questo proposito, è necessario riprendere nuovamente la legge sull’aborto. Per praticare l’interruzione della gravidanza dopo i 90 giorni, come abbiamo visto, non è solo necessario che il feto presenti delle malformazioni, ma occorre che queste possano provocare dei danni fisici e psichici alla salute della donna. La difesa si incentrava, appunto, sul fatto che pur essendoci delle malformazioni, comunque, la gravidanza era stata portata avanti senza notevoli fastidi. Per la qual cosa, pur avendo avuto la possibilità di conoscere le anomalie, la madre non era in quelle condizioni fisiche (perché appunto sana), tali che le stesse avrebbero potuto permetterle di interrompere legalmente la gravidanza. In realtà, la Corte ha inquadrato la faccenda diversamente. Ha, infatti, effettuato quello che si chiama un giudizio prognostico ex ante: vale a dire che ha valutato se, secondo una casualità adeguata, l’informazione del medico avrebbe determinato un processo patologico in grado di evolversi ad un serio pericolo della donna. La prova, che la conoscenza delle malformazioni del figlio avrebbe determinato in capo alla madre disturbi psicologici di notevole rilievo, è confermato dal fatto che ancora oggi, a distanza di sette anni dalla nascita del figlio gravemente malformato, la stessa è stata riconosciuta affetta da sintomatologia depressiva profonda, oltre ad altri disturbi di ordine psichico. Da ciò si deduce che portandosi al tempo della gravidanza, era quasi certamente prevedibile che si venissero a verificare le stesse patologie psichiatriche, quindi, i danni psichici e fisici, richiesti dalla legge. Quest’ultima, però, pone un ulteriore limite. Quando il feto ha raggiunto una “vita autonoma”, l’unico caso di interruzione è quello che può comportare un grave “pericolo di vita” alla donna. Condizione non presente nel caso specifico. A questo punto la Corte chiarisce due punti di non poco rilievo. Prima di tutto, per vita autonoma del “feto”, si intende che il feto, una volta estratto dal grembo materno, riesca a completare il suo processo di formazione e riesca a mantenersi in vita. Cosa diversa dalla autonomia del “concepito”, che nascerebbe, viceversa, capace di condurre una vita autonoma da un punto di vista fisico e psichico. Bisogna quindi, per scagionare il medico dimostrare che il feto aveva vita autonoma. È chiaro che per provare questo non può venirci incontro il fatto che fosse affetto dalla sindrome di Apert, né tanto meno come il bambino si sia poi successivamente sviluppato. Tale sindrome, infatti, non blocca il processo di sviluppo del feto e la vita del bambino fuori dal grembo materno, anche se ne blocca la sua autonomia sociale fisica e psichica (autonomia del concepito). L’autonomia del feto, dunque, deve essere dimostrata con altri elementi di fatto e di scienza medica. Chi deve dimostrare questi ulteriori elementi, allora? Qui si chiarisce il secondo punto. Poiché la dimostrazione dell’autonomia del feto poteva comportare la verifica dell’impossibilità da parte della donna di poter abortire, l’onere della prova, secondo la Corte, sarebbe sorto in capo all’accusato. Infatti, alla donna competeva provare i fatti costitutivi del diritto, al medico i fatti idonei ad escluderlo. Cosa che non è avvenuta nel casi specifico. Chiarito questo, la Corte si è soffermata su un ulteriore elemento, riguardante la possibilità della madre di poter scegliere di “non interrompere” la gravidanza, nonostante avesse saputo della patologia del figlio. A dimostrare la propensione della donna a voler “rifiutare”, piuttosto che ad “accettare” la gravidanza, ci viene in aiuto il fatto che la stessa si sia rivolta al medico in questione per esami volti a conoscere anomalie o malformazioni del feto. Infine, la Corte ha riconosciuto che il risarcimento del danno competesse non solo alla madre, ma, altresì, al marito. Questa è una vera e propria novità. Il diritto ad una procreazione responsabile e cosciente è diritto fondamentale che riguarda, quindi, anche la figura del padre. Infatti, i diritti e i doveri, stabiliti dalla legge, direttamente connessi con la procreazione, coinvolgono entrambi i genitori (artt.29 e 30 della Costituzione; artt.143, 147,261 e 279 del Codice Civile). Per la qual cosa, parti del contratto di prestazione di opera intellettuale con il medico sono entrambi i genitori. A nulla rileva il fatto che il marito non possa chiedere direttamente l’aborto, poiché non è titolare di questo diritto. Qui, infatti, non rileva questo, ossia il diritto all’aborto, ma l’inadempimento di un contratto, in cui è parte anche il marito. L’inesatta o mancata informazione si qualifica come inadempimento nei confronti di entrambe le parti contrattuali, quindi, suscettibile di risarcimento. Per concludere, la sentenza ha risvolti di non poco conto: vale a dire, 1 – la responsabilità del medico è definitivamente qualificata come contrattuale; 2 - il diritto all’interruzione della gravidanza è assurto a diritto fondamentale della personalità umana. Si sposta, quindi, l’interesse protetto (prima incentrato sul solo pericolo per la salute della donna), per il quale si fa discendere la meritevolezza della pretesa ad un eventuale risarcimento del danno; 3 – infine, l’inadempimento del medico (che non rilevi la malformazione del feto) determina il diritto anche del padre al risarcimento del danno, compreso quello dovuto al trauma della scoperta delle condizioni del figlio.

 


 

Inizio pagina | Home | Archivio  Motori di Ricerca Links  mail

Autorizzazione del Tribunale di Roma n 524/2001 del 4/12/2001 Agenzia di Stampa a periodicità Settimanale