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di Anna Maria Daniele
Prima di addentrarci nel cuore dell’argomento, è necessario ripassare alcuni istituti fondamentali di diritto. La responsabilità per l’esercizio di attività “pericolose” è disciplinata dal codice civile all’articolo 2050. Quest’ultimo prevede che chiunque cagioni danni ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per i mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno. Siamo in presenza della c.d. “responsabilità aggravata”. Quest’ultima è dettata dalla particolare natura dell’attività svolta, che comporta una più opportuna tutela in capo ai soggetti danneggiati. Infatti, in sede processuale (vale a dire quando il danneggiato si rivolge all’autorità giudiziaria per avere giustizia), l’attore (la parte processuale che ha dato vita al processo), nel caso il presunto danneggiato, deve provare solo che il danno è conseguenza dell’attività pericolosa. Viceversa, il presunto danneggiante (il convenuto: colui contro il quale è proposta la domanda) deve fornire la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno. Solo così potrà scagionarsi dalle accuse. È questa un’eccezione al regolare svolgimento di un processo, che prevede che chi fa valere in giudizio un diritto deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Vale a dire che il presunto danneggiato, oltre a dimostrare che il danno sia conseguenza dell’attività svolta, dovrebbe, altresì, dimostrare che lo stesso è stato cagionato dalla negligenza, imprudenza o imperizia, in poche parole da “colpa”. Nel caso specifico (articolo 2050), però, si presume che il soggetto esercente l’attività pericolosa sia già in colpa, per la qual cosa l’attore è onerato solo di provare il collegamento causale tra il danno e l’evento pericoloso. D’altro canto, il presunto danneggiante (cioè colui che presumibilmente ha causato il danno) deve dimostrare che abbia, come già detto, adottato tutte le misure idonee. Queste sono valutate in relazione all’attività svolta, ai mezzi impiegati, alla natura dell’attività, e, quindi , caso per caso. Per difendersi è, dunque, necessario dimostrare che sono intervenute della cause, atte a cagionare l’evento-danno, che sfuggono al controllo diligente dell’agente. Parlo della forza maggiore e del caso fortuito, nonché dell’intervento del terzo o dello stesso danneggiato (Per chiarezza, si intende per forza maggior, ogni forza esterna che, per il suo potere superiore, determina la persona contro la sua volontà in modo inevitabile. Per caso fortuito, tutti quei fattori, che hanno eccezionalmente provocato un evento, il cui verificarsi appariva del tutto improbabile). Il motivo di questa aggravamento processuale, in capo al presunto danneggiante, risiede nel fatto che chi svolge un’attività pericolosa deve sopportare anche il rischio dei danni che ne possono derivare. Chiarito questo, ci si chiede come possa la responsabilità, di cui all’articolo 2050, avere attinenza con quella del distributore, per i danni da assunzione dei farmaci. A chiarire questo punto, ci viene incontro una recente (20 giugno 2002) sentenza del Tribunale di Roma. Questa spiega che l’attività di distribuzione dei farmaci si deve considerare pericolosa, in quanto potenzialmente dannosa alla salute pubblica. Per specificare la portata di questa affermazione, fa ricorso alla dottrina più accreditata, che si è espressa proprio in relazione a questo punto (per maggiore comprensione: la dottrina consiste nel complesso delle opinioni e dei giudizi composti da ricercatori specializzati, cioè da giuristi, nell’interpretazione del diritto. Non sono vincolanti, ma hanno notevole influenza pratica sull’interpretazione giudiziale). Lo stesso orientamento giurisprudenziale dominante ha condiviso tale impostazione dottrinale. L’attività pericolosa è, prima di tutto, secondo quest’orientamento prevalente, quella qualificata così dalla legge e, in secondo luogo, quella che intrinsecamente sia potenzialmente lesiva, o sia svolta con mezzi realmente nocivi. Si tiene conto, quindi, e della probabilità statistica di eventi dannosi, e dell’entità dei danni ragionevolmente prevedibili. L’attività di importazione e commercializzazione, difatti, ha in sé, sia il requisito della previsione legislativa, sia quello della potenzialità lesiva. Il legislatore, infatti, ha inteso sottoporre questa attività a pressanti controlli (8 d.l. 443 del 1992; i d. leg. nn. 538,539, 540, 541 del 1992, r.d.n.1265 del 1934). A questo si aggiunge che il codice penale (art.443; 452) prevede come fattispecie criminose la commercializzazione, anche colposa, di medicinali guasti o imperfetti. Il codice qualifica questi reati come reati c.d. “di pericolo” per anticipare la tutela rispetto a quella degli altri reati. Infatti, in questi casi la responsabilità non rileva quando sia effettivamente avvenuto il danno, ma, semplicemente, quando il bene interesse tutelato dalla norma (nel caso la salute pubblica) sia messo in pericolo. Inoltre, la distribuzione dei farmaci ha in sé una forte potenziale lesivo, perché può diffondere nel pubblico un rilevante pericolo di malattia, derivato dalla natura dei mezzi adoperati. La questione, così prospettata dalla citata sentenza, è nata dall’assunzione da parte di una paziente di un farmaco, l’Isomeride. In seguito a quest’avvenimento, la donna era stata colpita da ischemia. Da accertamenti medici era emersa una lieve ipertofria (aumento di volume) del ventricolo sinistro (più precisamente: un’ipertrofia con insufficienza aortica di intensità media). Qui ci ritorna utile il discorso precedente. Avendo qualificato la vendita dei farmaci come attività pericolosa, infatti, la donna, in quanto attrice, ha dovuto dimostrare, solo, che il danno fisico subito era connesso all’assunzione dei farmaci. Con certificati medici, l’attrice ha provato che i primi disturbi si erano manifestati proprio al tempo dell’assunzione del farmaco, mentre dall’anamnesi risultava che, negli anni precedenti l’assunzione dello stesso, era sana. A tutto questo si aggiunge che i disturbi alle valvole cardiache sono statisticamente collegati all’uso della dexflenfluramina, presente appunto nel farmaco. Lo stesso Ministro della Salute ha vietato per tale motivo l’autorizzazione alla vendita dell’Isomeride. Inoltre, il Consiglio Superiore di Sanità già dal 1987 aveva considerato che “l’uso a scopo dimagrante di preparazioni magiche di associazioni di farmaci anoressizzanti con altri farmaci è criticabile e pericoloso”. D’altra parte, il convenuto si difendeva sostenendo che la responsabilità non è di chi distribuisce il farmaco, ma di chi lo produce. In realtà, le cose non stanno proprio così. La responsabilità, infatti, ricade sul produttore quando sussistono due requisiti e cioè: 1- che il danneggiato ignori la generalità del produttore, 2 - che il fornitore abbia omesso di indicare tali generalità al danneggiato. Entrambe le dichiarazioni sono confutate dal fatto che sulla scatola del farmaco si leggeva proprio la casa di produzione farmaceutica. Per di più, l’attrice non ha mai chiesto al distributore espressamente le generalità complete del produttore. Il convenuto, poi, si difendeva evidenziando che l’attrice non aveva fornito la prova dell’effettiva ingestione del farmaco. Tuttavia l’attrice, avendo dimostrato di aver acquistato periodicamente il farmaco (fatto noto), aveva così provato anche l’ingestione del farmaco (fatto ignoto). Sarebbe stato, quindi, compito della convenuta dimostrare il contrario. Da tutto quanto rilevato e riportato, la Corte, in base all’articolo 2050, che, come detto, comporta la presunzione di colpa in capo all’esercente di attività pericolose, e in base all’articolo 2727, che stabilisce che le presunzioni sono le conseguenze che la legge trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato, ha ritenuto responsabile il distributore del farmaco, accogliendo la pretesa attorea.
In sintesi, questa sentenza ha una rilevanza di non poca portata, visto che dimostra l’applicazione della disciplina legale dell’articolo 2050 alla produzione e commercializzazione dei farmaci, con le conseguenze di cui si è detto, vale a dire facilitazione processuale per chi ha subito il danno.
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