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IL FUTURO DELLA RICCHEZZA
di Stan Davis e Chris Meyer
Prefazione di Roberto Panazarani
(Edizioni Franco Angeli – 2000)
Dopo aver trattato nel libro BLUR i temi della velocità, interconnessione e immaterialità, Chris Meyer e Stan Davis danno una descrizione su cosa ci aspetta nel futuro della cosiddetta "Era dell'Informazione" focalizzando la loro attenzione su tre importanti conseguenze che caratterizzeranno l'ambito dell'economia interconnessa: rischio come opportunità, non solo come minaccia; maggiore efficienza dei mercati finanziari per lo human capital; bisogno di nuove forme di social capital.
Questi tre fattori si combinano in modo tale da mutare per sempre l'approccio che gli individui e le società hanno nel creare, accumulare, controllare e distribuire il benessere. Secondo Meyer e Davis infatti la creazione del benessere sta diventando sempre più legata alla "financial economy" (l'economia degli assetti, dei bilanci, degli stipendi, del prezzo e del mercato) e sempre meno legata alla "real economy" (l'economia dei beni, dei servizi e dei compiti). Ciò implica che i mercati efficienti devono dare sempre più importanza allo human talent e allo human capital. Le società cominceranno a investire sui loro impiegati e a valutare le business units anche come unità da inglobare nella valutazione del rischio finanziario il cui valore uguaglia la qualità del capitale intellettuale delle units stesse. Le persone cominceranno a pensare meno al lavoro e investiranno di più sul proprio human capital e cominceranno ad accettare rischi più alti con la possibilità di ottenere delle ricompense/premi più alti, trasformando il concetto del rischio da minaccia in opportunità.
Da BLUR a FUTURE WEALTH: il mondo nuovo.
Prefazione di Roberto Panzarani al libro di Stan Davis
Recentemente una delle tante inchieste giornalistiche su Internet ci ricordava che ai tempi dei figli dei fiori c’era una canzone dei Byrds che si intitolava “So you want to be a rock’n roll star” che esprimeva il sogno segreto di milioni di ragazzi in tutto il mondo, una via solida e sicura a fama e denaro. Se i Byrds esistessero ancora canterebbero “So you want to be an Internet star”, almeno a giudicare dalle molteplici storie su giovani manager di successo, su ricchezze iperboliche piovute come d’incanto solo sulla scorta di un’idea di un’invenzione di una nicchia di mercato che appena scoperta si è rivelata lucrosissima. Sembra che basti aprire un sito web, lavorare magari diciotto ore al giorno per un paio d’anni e, “voilà”, si diventa miliardari.
Naturalmente non è così, ma alcune fondamentali trasformazioni sono avvenute, ed è bene analizzarle per rendersene conto fino in fondo ed agire nella giusta direzione.
Con BLUR Stan Davis e Chris Meyer ci hanno detto che: velocità, interconnessione e immaterialità sono le tre forze convergenti della nuova economia che stanno rivoluzionando i parametri di riferimento, gli assetti e i confini di ogni business e di ogni organizzazione.
La separazione netta tra prodotti e servizi, chi compra e chi vende, dipendenti e datori di lavoro, fornitori e distributori, alleati e concorrenti tende ormai a diventare sempre più indistinta.
La velocità del cambiamento è senza precedenti, nulla è più stabile sia nel tempo che nello spazio. Le conoscenze e l’immaginazione contano più del capitale fisico. Le transazioni lasciano il posto agli “scambi”. I mercati fisici assumono le stesse caratteristiche dei mercati finanziari.
Per non essere sopraffatti dalla velocità del cambiamento e riuscire a valorizzare a proprio vantaggio le opportunità offerte da queste tendenze rivoluzionarie, è necessaria una comprensione dinamica delle zone indistinte della nuova economia nuova economia: BLUR, appunto.
La separazione tra prodotti e servizi è un residuo dell’economia classica, in pratica ciascuno di noi lavora e consuma allo stesso tempo, in un equilibrio dinamico più o meno sostenibile; la realtà è molto più complessa di una catena lineare e l’identità personale non può essere scissa dall’“identità economica”.
Nell’economia classica l’organizzazione è sempre stata l’intermediario tra lavoratore e mercato, mettendo insieme il lavoro dei diversi collaboratori e allocando il prodotto finale sul mercato. Questo ruolo non varierà in futuro, le organizzazioni continueranno a esistere per coordinare input e domanda aggregata, ma sarà l’individuo capace di interconnessione, con le sue competenze, l’”unità organizzativa” fondamentale, non l’azienda. L’individuo è la “maglia”, il nodo della rete.
Ed è a questo punto che l’individuo dovrà instaurare un nuovo rapporto con il mercato: il bene di scambio diviene la conoscenza, ossia tutto l’insieme di rapporti e di capitale immateriale che ciascuno ha accumulato nel corso della propria carriera.
Il bagaglio di conoscenze individuali ha un valore che può essere condiviso ricavandone dei vantaggi: il sapere genera valore molto più della terra o del capitale. Quello che si sa conta molto più di quello che si ha.
Le azioni di valore sono quasi tutte in mano ai singoli individui. Ciò che è importante a questo punto è imparare a gestire questo preziosissimo bene intangibile.
Sfuma così anche la distinzione tra identità del lavoratore e identità dell’imprenditore: ognuno dovrà essere imprenditore di se stesso. Sarà l’individuo a dover capire l’andamento del mercato, e se le prospettive non sono favorevoli, ad acquisire nuove competenze. Questo implica flessibilità, mobilità e connessione.
Se fino agli anni ’80 la maggior parte dei lavoratori trascorreva tutta, o quasi, la propria vita lavorativa all’interno della stessa azienda, con prospettive di carriera in senso verticale, oggi possiamo dire che in media l’aspettativa è quella di cambiare azienda almeno dieci volte nella vita, gestendo un percorso di carriera pianificato teso allo sviluppo continuo del proprio “capitale”. E’ ancora possibile parlare a questo punto in maniera distinta di lavoratori autonomi e di lavoratori dipendenti?
Nel prossimo futuro assisteremo allo sviluppo di mercati finanziari in cui sarà possibile negoziare in titoli a contenuto personale.
In Italia il contesto è ancora dominato prevalentemente da un’economia basata su piccole e medie imprese, e l’attenzione è focalizzata sulla valorizzazione del bene materiale, piuttosto che sulle risorse intangibili. Siamo ancora agli inizi del cammino verso la creazione della società dell’Informazione, che potrà essere considerata tale “non perché non si scambiano più prodotti materiali, ma perché il valore dello scambio di informazioni, a cominciare dal contenuto stesso di informazioni nei prodotti scambiati, supera di gran lunga il valore dei prodotti stessi.”.
Come è già avvenuto negli Stati Uniti, stiamo assistendo in Italia, all’espandersi di nuove forme di mercato che, grazie alle nuove tecnologie, vedono un’integrazione di più canali di comunicazione (da INTERNET alla telefonia mobile), che concorrono alla definizione di una nuova dimensione sociale del mercato.
In FUTURE WEALTH Davis e Meyer presentano un’irresistibile descrizione di cosa ci aspetta nel futuro della cosidetta era dell’informazione.
Tre sono le conseguenze più importanti che caratterizzeranno l’ambito dell’economia interconnessa: rischio come opportunità, non solo come minaccia; maggiore efficienza dei mercati finanziari per lo human capital; bisogno di nuove forme di social capital.
Questi tre fattori si combineranno in modo tale da mutare per sempre l’approccio che gli individui e le società hanno nel creare, accumulare, controllare e distribuire il benessere.
I mercati efficienti in funzione di quanto detto, dovranno dare importanza sempre maggiore allo human talent e allo human capital, mentre le persone , dovranno pensare sempre meno al lavoro in sé e investire di più sul proprio human capital, cominciando ad accettare rischi sempre più alti in vista di ricompense maggiori, trasformando il concetto di rischio: da minaccia a opportunità.
Un allineamento radicale si sta verificando nella natura del benessere, trasformando individui ordinari in potenti protagonisti del proprio futuro finanziario.
Se è vero tutto questo per gli Stati Uniti, per quanto riguarda l’Italia, e più in generale l’Europa continentale, dobbiamo invece notare al contrario questo aspetto: la “fuga dei cervelli” ha assunto dimensioni preoccupanti. Una recente indagine condotta dalla business school IMD ha rivelato che, mentre gli Stati Uniti sono il paese dal quale i lavoratori si spostano meno volentieri, i paesi europei sono considerati molto meno attraenti. La verità è che tutti gli stati europei oggi sono in trincea di fronte ad un paese, gli Stati Uniti, che catalizza sempre più energie intellettuali.
Secondo una ricerca della National Science Foundation i lavoratori stranieri attualmente impiegati negli Stati Uniti sono circa un terzo del totale. “Nel 1995 era straniero il 39% dei dottorandi in scienze naturali, il 50% di quelli in matematica e in informatica, il 58% di quelli in ingegneria. Tanto per farsi un’idea, i dottorandi in scienze naturali stranieri, in Germania, sono il 6,8%, quelli di ingegneria l’11,7%. L’unico paese europeo che presenta percentuali di ricercatori stranieri analoghe a quelle americane è la Gran Bretagna. Ma quello inglese, come sappiamo è un caso a parte. Più simile per certi aspetti, a quello americano che a quello continentale…
Gli Stati Uniti certo possono vantare una lunga tradizione di accoglienza di ricercatori provenienti da ogni parte del mondo. Durante il primo dopoguerra, il paese trasse grandi benefici dall’esodo di scienziati ebrei in fuga dal vecchio continente. Costoro diedero il più grande contributo alla storia della scienza e della fisica in particolare. Basti pensare a Einstein, Fermi, Weil…
L’apertura della comunità scientifica americana ha consentito la costituzione, fin da allora, di centri di eccellenza di livello mondiale, costruiti con il contributo di scienziati di tutte le nazionalità. Questa grande apertura ha consentito agli Stati Uniti di restare un polo di attrazione, anche quando la situazione si è stabilizzata nella maggior parte dei paesi europei.
Oggi gli europei più brillanti non si dirigono più verso l’America per sfuggire alle persecuzioni e alle dittature. Fuggono al contrario, da una realtà pacifica e tranquilla. Troppo tranquilla forse… “.
Secondo il mensile “Science”, gli stranieri sono sovrarappresentati tra i membri più illustri e retribuiti della comunità scientifica americana. Questo significa che oltre ad impiegare ricercatori scientifici stranieri, gli Stati Uniti offrono a questi anche la possibilità di accedere alle posizioni più elevate della gerarchia scientifica. In Europa, al contrario, la situazione che si prospetta alla maggior parte dei ricercatori è quella di anni di precariato, sottostimati e sottopagati, condannati alla frustrazione.
Se osserviamo questa situazione e la confrontiamo con l’attrazione esercitata dagli Stati Uniti, in particolare verso i tecnici europei più “business oriented”, non c’è quindi da stupirsi se la bilancia che misura il flusso di know-how e di servizi tecnologici che entrano ed escono da un paese, è oggi in netto deficit nei principali paesi europei e in forte attivo negli Stati Uniti. Questo è solo uno degli indicatori che segnala il ritardo del sistema produttivo europeo rispetto a quello americano, nei settori ad alto contenuto tecnologico.
“La fuga dei cervelli non è la sola spiegazione di questo ritardo. Ma ne rappresenta certamente una delle cause principali”.
Se da una parte la fuga dei cervelli costituisce un drammatico esempio italiano, dall’altra si deve sottolineare che per il nostro paese la connected economy potrebbe diventare un trampolino di lancio per entrare in un mondo nuovo. In questa logica un esempio di cambiamento è quello della storica divisione nord/sud che potrebbe essere superata proprio grazie a quella preparazione scolastica che in tempi di valorizzazione dello “human capital” diventa strategica nell’ambito della nuova economia.
Tutto questo richiede comunque un impegno sempre maggiore da parte delle nostre istituzioni, infatti, come sottolinea Anthony Giddens, “a dispetto di certe visioni correnti, il nuovo mondo ha bisogno di più governo e di una nuova decisionalità, che sappia trasferire dal privato al politico, quella che lui definisce la “democrazia delle emozioni”.
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