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di
Marina Pinto
L’autore della “Cavalleria rusticana” ci offre questo lavoro delicato e tragico – l’opera “Iris” - in un momento storico che vede la corrente verista come la maggior corrente trascinatrice del melodramma. L’opera verista italiana incentra la sua idea del teatro nell’urto delle passioni istintive che avviene soprattutto fra persone di umile estrazione, sullo sfondo di ambienti fortemente caratterizzati. Questo scontro di impulsi elementari - spesso anche brutali - trova il suo clima naturale nel mondo rusticano o nei sobborghi urbani; contadini, pescatori, guappi, mafiosi, prostitute sono i protagonisti dell’azione tragica, che non è quindi più riservata soltanto alle anime sensibili e privilegiate. Alla pena di vivere nessuno può sottrarsi, anzi, il travaglio e la sofferenza sono più amari e lancinanti in coloro che non possono alleviarli a causa delle condizioni in cui una sorte ostile e una ingiustizia sociale li hanno condannati a vivere, in mezzo alla miseria, alla superstizione e all’ignoranza.
Questo è il tessuto su cui si muovono e si animano le storie ed i personaggi veristi, ed i compositori hanno in mano un materiale essenziale e vero per costruire le loro tragiche storie, dove non trovano spazio motivi di carattere allegorico, scelte morali o poetiche, la tragedia della vita è la sola protagonista delle loro opere.
Quando Mascagni (1863-1945) si trovò a leggere il libretto di “Iris” rimase attratto dalle suggestioni esotiche – che attrassero anche Puccini – e da una atmosfera sensuale molto sentita, con in più un vago e confuso simbolismo che è implicito nella vicenda. Configurata entro i confini di una tumultuosa concupiscenza e di in istinto sensuale, “Iris” portava in sé il pericolo di una eccessiva immediatezza derivante dal tentativo del musicista di accostarsi troppo alla realtà, di adeguarsi ad una verosimiglianza puntuale, ma, appunto, pericolosa. La creatività di Mascagni però non si fece troppe censure, l’opera andò in scena a Roma nel 1898 con un esito contrastato e molte polemiche. La rappresentazione cominciò con l’iberbolico “Inno al Sole”, bissato a furor di popolo. Il pubblico pareva impazzito, gli scalmanati urlavano e molti agitavano fazzoletti in segno di gioia ed entusiasmo, sembrava essere tornati ai tempi dei fastosi spettacoli dell’antico circo. Il seguito della rappresentazione però subì un certo declino – né avrebbe potuto conservarsi così strepitoso – ma rimase vivo fino al terzo atto, dove la serenata e il duetto d’amore ebbero acclamazioni stupende. Il suicidio della protagonista, brutalmente oltraggiata e percossa dal padre, determinò una esplosione di applausi. Mascagni – che dirigeva l’opera – credette davvero di aver vinto, anzi, stravinto, ma la volubilità terribile del pubblico si vide presto: gli umori cambiarono, e la scena buia ed angosciosa indignò coloro che prima si erano abbandonati a dimostrazioni di plauso smisurato, nel giro di pochi minuti il termometro della sala passò da cento gradi a zero. La minaccia si aggravò, e nella sala del teatro si sviluppò rapidamente una epidemia di tosse asinina, c’era anche chi zittiva la platea per far ritornare la calma (bel sistema!), e non mancavano gli screanzati che gridavano “basta!”. Sembrava impossibile mandare avanti lo spettacolo in simili condizioni, la bufera imperversava e davvero era difficile continuare. Si udì finalmente un sottile gemito di Iris agonizzante… il pubblico rimase perplesso, un solo attimo ed anche gli aguzzini più inferociti cedettero ad un moto di curiosità. Bastò questo a far capire che la tempesta stava passando, gli spettatori si rabbonirono – pur con qualche riserva – e coloro che speravano di assistere ad uno spettacoloso naufragio dell’opera rimasero con un palmo di naso.
L’opera è delicata e struggente, cruda e violenta così come ci si aspetta che sia un lavoro teatrale verista, non c’è spazio per eroismi e per romanticismi, solo un ambiente esotico e lontano colmo di angoscia e funesti presagi che conducono ad un epilogo drammatico.
La vicenda: sotto l’immenso Fusiyama ammantato di neve, dinanzi alla sua piccola casa illuminata dal sole nascente, Iris rievoca un sogno pauroso popolato di mostri orribili, e non si accorge che, oltre la siepe che circonda il giardino, ci sono due uomini che la osservano attentamente; il più giovane dei due, Osaka, è ricco e dissoluto, si è incapricciato di lei e propone all’altro, il losco mezzano Kyoto, di rapirla. Il progetto trova immediata attuazione: attratta da uno spettacolo di fantocci, Iris si avvicina al teatrino piantato vicina la sua casa, ma ben presto viene avvolta nella danza vorticosa di tre “guèchas” che la isolano dagli altri spettatori; è facile in quel momento per alcuni saltimbanchi istruiti da Kyoto, afferrare la fanciulla e trasportarla al Yoshiwara, il quartiere dei piaceri di Tokyo. Qui le si presenta Osaka, che cerca di attrarla a sé lusingandola con promesse di gioielli e vesti preziose, ma Iris continua a respingerlo, e il giovane, spazientito dai ripetuti dinieghi, consegna la fanciulla a Kyoto perché ne faccia quel che vuole.
Il perfido Kyoto allora la veste sontuosamente e la espone all’attenzione della folla; Osaka si pente di questo gesto, ed ingiunge al complice di desistere dal suo turpe disegno di vendere la ragazza, ma le sue parole sono interrotte da un grido disumano: il padre di Iris, vecchio e cieco, lancia manciate di fango raccolto da terra verso la figlia, che, sconvolta dal dolore, si getta in una profonda voragine. Iris però non è morta: a poco a poco ella riprende i sensi e si chiede il motivo del suo triste destino. I ricordi, lieti e dolorosi della sua breve esistenza, tornano al affollarle la mente e, mai come in quell’estremo momento, le appare più struggente il rimpianto della felicità perduta a causa dell’egoismo degli uomini. Reclina il capo e sembra assopirsi, ma ecco dall’alto della orribile voragine si vede un bagliore irreale, dapprima fioco, ma che diventa presto sempre più forte: è il sole, venuto con lo splendore dei suoi raggi a confortare gli ultimi istanti di vita della giovane ed innocente “mousmè”, che passa così, quasi inconsapevolmente, dalla vita alla
morte.
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