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Anno 2 Numero 62 Mercoledì 11.06.03 ore 23.45

 

Direttore Responsabile Guido Donati

 

Hector Berlioz: “Te Deum”  

 

di Marina Pinto 

 

La grandissima personalità e la genialità di Berlioz (1803-1869) ci appaiono in tutta la loro unicità in questo brano, scritto nel 1849, quando il musicista capì che sotto le spoglie di Luigi Bonaparte si celava Napoleone III, e vide profilarsi all’orizzonte una cerimonia di incoronazione… si sa, gli artisti sono arrivisti -allora come ora - e quindi egli si buttò con ardore e passione a comporre il “Te Deum”. Il genio di Berlioz non fu mai smentito, lo sappiamo, ma in questo lavoro esso è rilucente e smagliante di forza, di vigore, di profondità, di religiosità e di una audacia musicale come mai si era avuta in quel tempo. Il “Te Deum” è un’opera dal difficilissimo accesso, è fatta di sfumature e di sottigliezze tali che devono passare almeno tre o quattro audizioni prima che si cominci a scorgerle ed assaporarle, tanto più che lo stile con cui è composta è un lavoro contrappuntistico scavato all’estremo, che comprende non solo la scrittura musicale, ma anche la poesia, il testo liturgico e lo spazio in cui si muove la musica, cioè la disposizione dell’organico strumentale e delle voci. Nell’esecuzione del brano sono poste quattro sorgenti sonore a buona distanza le une dalle altre: i due cori (senza considerare un terzo, che però l’autore stesso non mette di obbligo), l’orchestra e l’organo. In mezzo sta il pubblico, che si bagna in un oceano le cui correnti si incrociano intorno e al di sopra di esso senza mai confondersi, uno dei più tipici casi di stereofonia dell’intera storia della musica, e del resto ad un tale ed infiammato virtuosismo della scrittura si devono le massime riuscite di Berlioz. La musica del “Te Deum” ci offre imitazioni, canoni, variazioni, i suoni circolano nelle voci di ciascun complesso, o da un complesso all’altro senza che l’intreccio della scrittura perda mai della sua limpidezza. L’organo e l’orchestra si rispondono senza posa, talvolta si riuniscono, e ad essi vi si aggiungono le voci, che in determinate parti sono le protagoniste, per poi lasciare il passo ad altre voci, e poi ancora all’orchestra. Così si presenta, a grandi linee, il “Te Deum” di Berlioz. Esso però non fu ammesso alla gloria del novello Cesare – come avrebbe voluto l’autore – e, dopo sei anni di silenzio, ci fu una sua esecuzione per la celebrazione del Commercio e dell’Industria all’Esposizione Universale del 1856. Chiunque prenda il testo liturgico del “Te Deum” e lo confronti con l’opera musicale realizzata da Berlioz potrebbe venir preso da vertigine. Potrebbe addirittura sembrare che l’autore abbia tagliato i versetti dell’inno, li abbia messi in un cappello e, dopo aver bene agitato, abbia preso e musicato quel che ne usciva. Ma ad un secondo esame si vede che le cose non stanno affatto così, che non c’è nessuna casualità, e che, per quanto Berlioz possa esser stato moderno e precursore delle estetiche musicali del XX secolo, egli non intese mai inventare un’arte aleatoria. I versetti liturgici sembrano divertirsi a giocare ai quattro cantoni, ma essi rispondono precisamente all’intento che l’autore ha assegnato ad ognuno di loro, in rapporto al sentimento che ciascuno esprime. Il “Te Deum” viene tramandato dalla Chiesa come un cantico di grazie, ossia di riconoscenza a Dio per un beneficio da Lui ricevuto. Ma di ringraziamenti e di benefici si parla solo in una piccola parte di questo lavoro, soltanto in quattro versetti – dal quattordicesimo al diciassettesimo – solo quattro sui ventotto totali. Il lavoro è diviso in sette parti, ognuna delle quali comprende un certo numero di versetti, i primi tredici sono una grande acclamazione, vi sono tutte le possibili immagini della possanza, della gloria, della maestà divina, un richiamo al Sanctus della Messa ed una solenne affermazione e celebrazione della Trinità. Dal diciottesimo versetto fino alla fine incontriamo invece una ardente supplica, che verso la fine si spinge fino all’angoscia, con appelli come “Miserere nostri… non confundar in aeternum”, e il grido finale “In Te, Domine, speravi”. Quindi possiamo tracciare un semplice schema del lavoro in questo modo: versetti 1-13: celebrazioni e lodi della Trinità divina versetti 14-17: ringraziamenti e canti di devozione versetti 18-28: suppliche e preghiere di speranza Il “Te Deum”, quindi, è un cantico che si drammatizza dalla metà alla fine, dopo un inizio che esprime la lode e la gioia con forza incredibile, e questo spiega le intenzione di Berlioz nel taglio della partitura e nel terremoto che ha provocato nel testo liturgico. Per cominciare egli ha scisso l’acclamazione iniziale in due parti: non poteva attribuire lo stesso peso musicale ad una rappresentazione della turba di popoli della terra e al canto dei Cherubini, Serafini, Apostoli e martiri abitanti nei celesti soggiorni, e quindi ecco i due pezzi diversi e distinti. Il primo brano inizia con solennissimi accordi scambiati fra orchestra ed organo, inframmezzati da lunghi silenzi, per far sì che le vibrazioni si perdano nella risonanza, è questo un grande affresco musicale di grande suggestione. La seconda parte, insieme con l’ultima, godeva della predilezione dell’autore, e qui bisogna parlare di poesia almeno quanto di musica: infatti solo un grandissimo poeta-musicista poteva immaginare una melodia sinuosa ed insistente di sette note, instancabilmente ripetute, in cui si mescolano la purezza musicale della litania cattolica, la spontaneità del canto liturgico russo e la semplicità del canto popolare francese, e solo uno come Berlioz poteva porre tutto questo in musica, con un così esemplare risultato da restare sbalorditi ed affascinati oltre ogni dire. Il terzo numero è solo orchestrale, una breve marcia militare che riprende il primo tema, e che si arresta bruscamente per concludere “piano” con una breve coda; componendo il “Te Deum” in vista di una parata mezza militare e mezza religiosa, Berlioz vi inserì questo episodio marziale (che spesso è sacrificato nelle esecuzioni da concerto in chiesa). Con il quarto numero arriviamo al vero terremoto del testo: la gloria e la maestà divina sono state già celebrate all’inizio, ora Berlioz ha bisogno di qualcosa di pio e di pacato. E lo trova in un versetto “Dignare, Domine: degnatevi Signore di difenderci oggi dal peccato”, ed il versetto successivo “miserere nostri” non basta ancora, ed allora Berlioz torna indietro, e preleva una frase di cinque versetti più sopra, insomma si dedica ad un lavoro di tarsia del testo e vi inserisce una musica che alterna la flessibilità melodica del primo coro e il martellamento del secondo, che, su note sempre ripetute in valori più lunghi, sgrana le parole del testo “Domine… custodire… sine peccato…” Il numero cinque riprende il testo come era, e lo tratta piuttosto facilmente, conservando solo cinque versetti del precedente. Nel sesto episodio ascoltiamo solo quattro parole del testo: “Judex crederis esse venturus”, le sole dell’inno in cui appare in piena luce il tema del Giudizio finale. Questo verso viene reinserito alla fine, associato con il “Miserere nostri… non confundar in aeternum”, in un altro mosaico di versetti prelevati qua e là che ci portano nel pieno del dramma, ed arriviamo così all’ultimo pezzo, accompagnati da una frase del tenore che ascende di pari passo con la tensione drammatica. Il settimo brano è tutto costruito sull’idea del Giudizio, la musica è pervasa da profonda angoscia, espressa da un profondo ostinato che non cessa di ossessionare l’ascoltatore, e con un clamore di voci nell’acuto che ci fa drizzare le orecchie, giacchè vi udiamo all’improvviso un grido di dolore e di paura, come se ascoltassimo davvero il giudizio divino, è una pagina che anticipa di un quarto di secolo uno dei più lancinanti temi del Requiem di Verdi.

 


 

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