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Anno 2 Numero 59 Mercoledì 21.05.03 ore 23.45

 

Direttore Responsabile Guido Donati

 

Giuseppe Verdi: Falstaf 

 

di Marina Pinto

 

Concepire il “Falstaff” rappresentò per Verdi (1813-1901) un cambiamento nella drammaturgia ed una metamorfosi del linguaggio musicale, unite ad un distacco dal suo atteggiamento consueto di autore di grandi ed impegnative opere teatrali, e in più implicò un mutamento di personalità, in parole semplici una dimensione nuova. Tutto questo fu un passo importante, consideriamo che all’epoca del “Falstaff” Verdi aveva la bella età di ottant’anni, e alle spalle un considerevole numero di lavori teatrali che affermavano in modo assoluto la sua personalità romantica. La gestazione di quest’opera non fu facile, durò dal 1889 al 1893: in quel periodo l’Italia era attraversata da grandi movimenti di rinnovamento in campo teatrale sia musicale sia drammatico, dove si stava espandendo l’epidemia verista, e ancora nella pittura con il movimento divisionista, e fuori dall’Italia era forte la corrente impressionista, che si esprimeva in pittura ed in musica. Il “Falstaff” invece era un lavoro del tutto al di fuori da queste novità, sembrava anzi un voler tornare indietro; Verdi - da vero autore romantico - fino ad allora aveva pensato alla comicità italiana come un fatto storico, l’azione teatrale di tipo buffo era identificata nel teatro di Rossini, che ne era diventato il vero simbolo, ed egli ci si era avvicinato una sola volta, nel lontano 1840, con l’opera “Un giorno di regno” (che sappiamo fu un insuccesso totale); l’avvicinarsi di nuovo al genere comico fu per lui come una rivincita di quel lontano fiasco scaligero. Naturalmente la distanza fra Rossini e Verdi non è solo un fatto di tempo, là dove l’uno rappresentava oggettivamente i casi umani cogliendone il lato comico, l’altro aveva verso il teatro un atteggiamento etico, una ricerca ed un giudizio sul bene e sul male, sui loro effetti sull’umanità, secondo una visione romantica ed ottocentesca che poneva l’attenzione soltanto sull’aspetto drammatico della vita. Verdi fu sempre coinvolto personalmente nella sua arte e nel suo teatro, per passionalità istintiva e soprattutto per convinzioni di natura ideologica e morale, per questo le sue opere portarono da subito un accento nuovo nel teatro musicale, che ebbe eco e una risonanza assolute. Comporre “Falstaff”, cioè una commedia secondo l’antica oggettività italiana, significò per Verdi smettere l’abito mentale del giudizio sulla vita e sul mondo, ed assumere quello di osservatore distaccato: questo fu un atto di saggezza senile, come guardare le cose con un occhio diverso avendo chiuso il libro della propria vita, con una nuova presa di coscienza che gli ideali espressi altrove ed in altri tempi valevano ed avevano comunque un valore storico. Si trattò anche di un gesto liberatorio e coraggioso, di un atto vitale compiuto con serenità e con una punta di ironia, che affiorano gentilmente nell’opera, e prospettano una immagine rinnovata dell’ultimo Verdi. Questa condizione nuova si riflette anche nel fatto che quest’opera – la sua ultima - Verdi la scrisse soprattutto per sé, e non per un teatro, egli lo affermò chiaramente, addirittura propose che essa venisse rappresentata non alla Scala ma nel piccolo teatro di Sant’Agata (il paese dove viveva), mettendosi così in uno stato di imponderabilità in cui non si era mai trovato, ma si sentiva forte dell’esperienza e della gloria e voleva imporre la sua libera ispirazione senza vincoli. Questi furono i mutamenti psicologici dell’autore dai quali scaturì il progetto del “Falstaff”, e l’assunto dell’opera fu quello di riprodurre l’oggettività della commedia italiana fondendone i vari elementi: il grottesco, il patetico, il farsesco, il favolistico, e rievocarne i caratteri fondamentali, come il movimento rapido dell’azione, l’allegria, l’osservazione acuta dei particolari dei tipi umani e degli eventi. Il segreto di una simile animazione non era stato più scoperto dopo Rossini (salvo i due lavori di Donizetti, “L’elisir d’amore” e “Don Pasquale”). Per ritrovare la comicità italiana occorreva un linguaggio avanzato, minuzioso, analitico e nello stesso tempo veloce e sintetico, capace di mimetizzarsi nel tono di conversazione e di gonfiarsi nell’immagine paradossale, un linguaggio molto realistico, una “parola scenica” che è una stretta integrazione fra il canto ed il tono della lingua quotidiana. Il libretto del “Falstaff”, di Arrigo Boito, corrispondeva perfettamente a tali caratteristiche, vi spiccava un protagonista assoluto in cui si fondevano e si riflettevano tutte le sfumature giuste della commedia italiana. La commedia ha una azione rapida e giocosa, che si svolge quasi esclusivamente nel rapporto fra Falstaff e i suoi antagonisti, gli altri personaggi fanno da sfondo: Verdi conferisce rilevo psicologico alla figura dell’immortale grassone, che ha una sua realtà profonda che non è solo farsesca, ma anche comica e patetica: egli è un vecchio gaudente, invaghito di due donne – Alice e Meg - che aspira a fare sue (entrambe), cornificando i rispettivi mariti, egli cede all’illusione che lo spinge ad amare e che non gli fa vedere l’impossibilità di essere amato. Egli è gradasso e cinico nel primo atto, poi è oggetto di un’allegra burla, quando le due donne prima lo nascondono e poi lo fanno precipitare nell’acqua; diventa patetico, nel monologo del terzo atto, per trovarsi nuovamente coinvolto in un’altra beffa, questa volta di carattere surreale, nella scena del parco di Windsor. Lanciandosi in questa avventura assurda sir John diventa così una materia di scherno, fino al punto di gloriarsi pubblicamente della sua gran pancia, e questo lo mette in grado di accorgersi come sia povera e sterile la vita di un vecchio, ma questa non è per forza una condizione di perdente (che del resto non sarebbe in armonia con la natura del personaggio); “versiamo un po’ di vino nell’acqua” dice, per consolarsi, ed il buon vino fa rifluire in lui un calore rasserenante, e così ritorna l’ottimismo nel suo cuore. La dimensione poetica del personaggio si proietta in diverse prospettive: l’uomo non può vivere al di fuori di ogni ambito illusorio, e per questo egli è di volta in volta savio, pazzo, stupido o nella piena coscienza di sé stesso, nell’esperienza della vita confluiscono verità ed illusioni, la vita del tempo reale con quella sognata, e così tutto è giustificato nella conclusione finale: “tutto il mondo è burla”. L’opera è perfetta, Verdi si avvale di una sensibilità strumentale sottile e penetrante, il maestro dà piena evidenza alla psicologia del personaggio sviluppando il tema amoroso con finezza di toni e sfumature, tanto nel galanteggiare farsesco di Falstaff quanto nel tenero idillio fra Fenton e Nannetta, e tutto ha una orchestrazione vaporosa, intima e sottile, l’atmosfera sembra soffusa di una luce ideale, che ben si addice alla passione. Per questo stupendo e magico equilibrio dei valori espressivi “Falstaff” è una vera rivelazione del teatro di Verdi.

 


 

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