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Anno 2 Numero 55 Mercoledì 23.04.03 ore 23.45

 

Direttore Responsabile Guido Donati

 

Maurice Ravel: “Boléro”

 

di Marina Pinto

Maurice Ravel (1875-1937), nato nei Bassi Pirenei, vissuto a Parigi, ma con una forte tendenza per la Spagna e le sue sonorità, una cospicua parte delle sue composizioni porta infatti una impronta spagnola. Non c’è da stupirsi dell’affetto del compositore verso gli accenti spagnoli, esso non nasce casualmente, il maestro visse a Parigi sin dall’età di dodici anni, ma trascorse l’infanzia a Ciboure, il suo paese natale, dove l’elemento folklorico iberico alimentava gli avvenimenti di ogni giorno, era un cuore pulsante della vita quotidiana, non a caso Ravel stesso era solito confessare “la mia seconda patria musicale è la Spagna”.
La Spagna è proprio la fonte di ispirazione per il brano musicale “Boléro”, un balletto che ha una sua storia: la ballerina Ida Rubistein chiese al compositore di scrivere per lei un balletto spagnolo di grande effetto da inserire nel proprio repertorio. Ravel approntò il pezzo concentrandosi su un unico tema, senza mutazioni ritmiche o melodiche se non alla conclusione del brano stesso. Il segreto della partitura sta proprio nella ripetizione ossessiva del medesimo motivo, ma posto ogni volta sotto una luce diversa, e con un formidabile crescendo affidato alla dottrina dei vari colori e virtuosismi sonori degli strumenti. Ravel definì il “Boléro” una “danza lasciva”, lo dirigeva con imperiosa esattezza, non ammetteva il benché minimo “stringendo”, né il rinvigorire dell’inesorabile tema, con una durata media di circa 17 minuti, quindi un andamento assai moderato. Da questa sua concezione nacque una certa freddezza di rapporti con il grande direttore d’orchestra Arturo Toscanini, il quale era convinto che il “Boléro” dovesse essere eseguito più in fretta, come un autentico bolero spagnolo.
Ravel di certo non immaginava che quest’opera avrebbe elettrizzato le folle, unico suo pensiero mentre lo scriveva era che quella musica avrebbe accompagnato la danza, e sua esclusiva preoccupazione era che le varianti immaginate dalla ballerina e l’atmosfera creata dalla regia con gli effetti di luce, potessero bastare a far “sopportare” le continue ripetizioni della stessa frase musicale. La prima esecuzione fu nel 1928 all’Opéra di Parigi, con il corpo di ballo di Ida Rubistein, e riscosse subito un successo popolare, che lo stesso autore non sapeva spiegarsi; il pubblico dei balletti, abituato ad ascoltare musica permeabile al soggetto e al variare degli interpreti, in effetti non riuscì a capire immediatamente questa danza così statica, basata su un motivo sempre uguale, dove il movimento moderato e regolare nella sua lentezza rimane costantemente uniforme, sia per melodia, sia per armonia e ritmo, segnato incessantemente dal tamburo, e dove il solo elemento di diversità è dato dal “crescendo” orchestrale.
L’attenzione del pubblico, quindi, si trovò concentrata sulle sonorità orchestrali, attenta alle entrate dei diversi strumenti, i quali, ancor meglio di una ballerina solista, provocano continue ragioni di sorpresa: ognuno di essi esegue un “passo a solo”, a seconda delle sonorità del proprio timbro, fino a raggiungere l’apoteosi finale, e i “figuranti”, finalmente raggruppati, possono annunciare, con grande frastuono di timpani ed ottoni, l’apparizione festosa…. della modulazione! Ecco il motivo che annuncia la fine, la conclusione di una attesa spasmodica che l’ascoltatore avverte pian piano durante tutto l’ascolto del brano, ma che si accorge di aver provato solo nel momento finale (Ravel pensava intimamente che l’elemento maniaco-sessuale suscitato dall’ossessione ritmica costituisse probabilmente la base dell’inatteso successo).
In effetti il “Boléro” è una autentica sfida alle costumanze musicali, la ripetizione incessante dei tema avrebbe facilmente potuto provocare una pericolosa monotonia. Soltanto il genio del grande maestro riuscì a vincere questo ostacolo e a conquistare anima e sensi del pubblico. La gente, com’è noto, cerca inizialmente di sorridere, ma ben presto si spazientisce e si ribella ad una sollecitazione ambigua, ad un ascolto non chiaramente motivato verso una conclusione logica: nell’ascolto del “Boléro” l’incessante tema che passa da una voce ad un’altra dei vari strumenti dell’orchestra, porta ad una attesa importante, ma che non presagisce soluzione, quando improvvisamente un richiamo degli archi ed un improvviso sviluppo sonoro agisce psichicamente sugli ascoltatori, che, da un latente e pericoloso stato di iniziale noia, cominciano di nuovo a sperare. La forza del crescendo, la volontà lancinante racchiusa nel tema musicale, consente al pubblico di godere ampiamente di un inespresso e vago desiderio. Il contagio estatico si sviluppa subdolamente nella sala, e, allorquando gli ottoni proclamano la liberazione della tonalità tenuta fino ad allora prigioniera, ognuno riacquista il senso della realtà terrena, e un rilassamento improvviso e liberatorio, provocato dall’esplosione del crescendo e della conclusione spasmodicamente attesa, consente il benessere della sicurezza.
L’ostinato motivo del “Boléro” conserva la propria aristocratica fermezza ogni volta che viene riproposto nei concerti, e ogni volta fa l’effetto di una grande rivelazione, l’equilibrio sonoro di queste pagine è veramente un gioco di destrezza, Ravel possedeva una precisa conoscenza delle tessiture strumentali che adoperava la consistenza delle sonorità, come un pittore adopera i colori allo stato puro. Nel brano “Boléro” il compositore ha voluto trasmettere ai posteri una specie di trattato di orchestrazione, un ricettario che insegna loro ad impastare i timbri orchestrali.

 

 


 

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