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Anno 2 Numero 53 Mercoledì 09.04.03 ore 23.45

 

Direttore Responsabile Guido Donati

 

La musica strumentale per grande orchestra

 

di Marina Pinto

Un aspetto caratteristico del linguaggio musicale è la capacità di descrivere la realtà, i sentimenti, i pensieri e le emozioni attraverso i suoni. L’orchestra è naturalmente il mezzo attraverso cui passa il messaggio musicale per giungere all’ascoltatore.
Per incontrare nella storia l’orchestra così come la si intende nella nostra epoca, dobbiamo andare indietro nel tempo fino a verso la fine del XVI secolo, nell’ultima fase rinascimentale veneziana. L’organico di quei tempi si limitava quasi sempre ad una somma di strumenti a fiato ed alcuni ad arco (violini e viole) che in diversi casi venivano usati semplicemente per raddoppiare le voci del canto, o anche per imitare suoni della natura o versi di animali, come il canto di un uccellino; con particolari effetti dinamici si poteva simulare un temporale, riprodurre il galoppo di un cavallo o il passo di una marcia di soldati. Si dovrà attendere il 1600 per ascoltare un più sistematico uso degli archi, che un po’ alla volta faranno invece la parte del leone: è il momento questo in cui abbiamo uno degli esempi principe di una squisita formazione orchestrale: nell’ “Orfeo” di Claudio Monteverdi, del 1607, ammiriamo un organico formato da 10 viole da braccio, 3 viole da gamba, 2 violini piccoli alla francese, 2 contrabbassi, 2 clavicembali, 2 chitarroni, 1 arpa doppia, 4 tromboni, 2 organi piccoli, 1 organo regale, 2 cornetti, 1 flauto, 1 clarino.
Fino a circa la seconda metà del 1700 si affidava agli strumenti a tastiera (clavicembalo o organo) quasi tutta la parte armonica, ossia l’accompagnamento, arricchita semmai dall’apporto del basso continuo eseguito dal violoncello, dal contrabbasso e non raramente dal fagotto, e la parte predominante figurava nella voce degli archi; tra l’altro la maggior parte dei compositori ideava e creava le partiture quasi esclusivamente per archi. Basti ricordare le opere di Corelli, Vivaldi Handel e molti altri. Allora gli strumenti a fiato erano considerati addirittura superflui, o per lo meno secondari, non a caso, presso la corte di re Luigi XIV, l’orchestra si chiamava pomposamente “i ventiquattro violini del re” (ricordiamo che l’orchestra del “Re Sole” fu la prima orchestra stabile della storia).
Il primo grande passo in avanti nell’evoluzione dell’orchestra moderna venne compiuto in seno alla grande “Scuola di Mannheim”, dove spicca la presenza dello Stamiz, e da dove hanno appreso Rameau e Bach. L’orchestra di Manneheim era formata dall’intera famiglia degli archi, con primi e secondi violini, 2 flauti, 2 oboi, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe e 2 timpani. Alla fine del secolo vi si aggiunsero anche 2 clarinetti, e questo fu l’organico a cui si rivolse la musica dei classici Haydn, Mozart e Beethoven, il quale creò una più netta divisione all’interno della famiglia degli archi per quanto riguardava le voci di violoncelli e contrabbassi, poi aumentò il numero dei corni (fino a 4), e non passò molto tempo che si fece importante la presenza incisiva dei tromboni.
Così ricca di possibilità sonore e coloristiche l’orchestra passò nelle mani di Rossini, Schumann, Verdi, Liszt, Brahms, Grieg Dvorak, Franck, Sibelius. Con grande perizia, ma anche con una forte componente megalomane, ci fu l’intervento di Berlioz, il quale fu bravissimo maestro e didatta nel suo “Trattato di strumentazione e di orchestrazione”, ma la sua teoria ebbe realizzazione piena soltanto in due composizioni (il “Requiem” e il “Te Deum”), e il motivo è nella disposizione dell’organico da lui stabilito, che contava un totale 467 orchestrali a cui andavano aggiunti altri 360 coristi. Un’orchestra trascinata a tali mastodontiche dimensioni fu comunque la chiave del filone neo-germanico a cui Wagner si dedicò con molta dedizione, infatti nelle sue opere l’imponente massa orchestrale si propone come elemento importante e presente quasi all’interno del dramma stesso. Un’orchestra di grandi ed imponenti dimensioni la troviamo anche nella Sinfonia n.8 di Gustav Mahler, del 1906, dove, oltre all’organico base di archi, fiati e percussioni, sono presenti un armonium, un organo, 2 arpe, un mandolino e un ulteriore gruppo di ottoni distinto dall’orchestra costituito da 4 trombe e 4 tromboni. 
Preziosi effetti coloristici furono elaborati da Mussorgskij, Borodin, Rimskij-Korsakov, mentre Debussy e Ravel piegarono il discorso orchestrale a più sottili e raffinati effetti dinamici e timbrici.
Il XIX secolo fu dunque il periodo in cui l’orchestra ebbe più trasformazioni, fino a stabilizzarsi su un numero di circa 104 elementi, e a questa dimensione si mostrarono fedeli anche i moderni Richard Strauss e, Schoenberg. Ma fu proprio l’abuso di certe sonorità da autentico “cataclisma” sinfonico a convertire i maestri negli anni ’20 del XX secolo a più pacate masse orchestrali, ritornando ad organici più dimensionati attraverso cui espressero moltissime pregevoli composizioni musicali; in alcune composizioni moderne l’organico si riduce a non più di 16 strumentisti, oltre naturalmente ai solisti vocali.
Nella rapida evoluzione dei gusti, nonché nel veloce trasformarsi del suono come fatto sperimentale, anche l’orchestra è stata al centro delle attenzioni dei nuovi autori, per cui si è assistito ai giochi dell’elettronica in contrappunto ai disegni dell’orchestra classica o anche organici tradizionali impiegati nell’esecuzione di brani di “nuova espressione” diversa di volta in volta (in Strawinskij, Stockhausen, Bolulez).
L’orchestra sinfonica attuale conta 80-100 elementi, suddivisi nelle due grandi famiglie degli archi e dei fiati, a cui si aggiungono le percussioni, nonché strumenti richiesti dall’autore di volta in volta in partitura, quasi come eccezioni: arpa, celesta, pianoforte, armonium, organo, mandolino, chitarra, saxofono, xilofono, vibrafono, o anche strumenti popolari come guiro, nacchere, frusta, maracas, sonagli, raganella.

 


 

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