|
|
di
Marina Pinto
Questa “Nona”, l’ultimo lavoro di Beethoven (1770-1827), è immanente in tutta la produzione creativa dell’artista, ed è presente nel suo inconscio fin dalla prima giovinezza. E’ un lavoro a lungo meditato e maturato nel tempo, già dal 1793, quando, ancora ragazzo, Beethoven lesse l’“Inno alla gioia” di Schiller e ne rimase scosso.
Mai una singola opera di un grande musicista ha suscitato tanta emozione nel mondo come la Nona Sinfonia, non soltanto fra i suoi contemporanei, ma molto oltre nel tempo, fino ad oggi. Dall’ammirazione estatica di tanto valore musicale alle tante critiche sulla sua costruzione formale, la Nona rimane il lavoro più ammirato fra la tanta musica del XIX secolo, ancora si discute se essa sia un caso singolo o se con essa non sia stato creato un nuovo tipo di sinfonia, e quindi se le numerose sinfonie corali composte negli ultimi cento anni siano da considerare una legittima discendenza di Beethoven sulla via di una nuova forma d’arte.
Soprattutto il finale, l’ultimo dei quattro tempi dell’intero lavoro, è oggetto di studio e discussione, oggi come ieri: apre il pezzo una introduzione strumentale in cui ascoltiamo un evento musicalmente scrosciante e fragoroso (la “fanfara del terrore” fu la definizione di Wagner), da cui si sviluppa un assolo dei contrabbassi che anticipa la melodia della gioia, la quale a poco a poco viene allargata a tutta l’orchestra. Risuona poi di nuovo il primo attacco del tempo, intensificato in una terribile dissonanza (tutte e sette le note della scala risuonano contemporaneamente!) e da esso si stacca di nuovo un assolo, questa volta intonato dal basso, sulle celebri, semplici e belle parole: “O amici, non questi suoni, intoniamone altri più grati e gioiosi!”.
La melodia della gioia è una pura melodia strumentale, una delle più grandiose ispirazioni di tutta la musica, ciò che sorprende ed incanta è la parte vocale, al solo basso si associa presto un coro completo, e nel momento in cui entrano le voci il tempo e il modo di tutto il movimento sono già consolidati, già “in marcia” nel loro sviluppo organico. Le voci, quindi, agiscono non come ornamento od aggiunta alla musica strumentale, esse sono un nuovo mezzo espressivo introdotto nel corso dell’opera musicale, per conferirle maggiore potenza. Eppure questo potenziamento raggiunto con l’entrata del coro non basta a spiegare completamente la profonda emozione che coglie a questo punto l’ascoltatore; la voce è qualcosa che nella sua intera essenza risulta essere diversa dagli strumenti, con essa la parola entra direttamente nella musica in modo essenzialmente diverso che nelle consuete opere corali (come la Cantata, che per principio è costruita sulla parola). Che significa allora qui la parola? Serve alla “suprema chiarezza”, come “un risveglio dal sogno”, secondo il giudizio di Wagner, ma Beethoven non ha bisogno della parola per essere chiaro: quello che importa non è che “una voce umana si levi, con la chiara e sicura espressione della favella, sulla tempesta degli strumenti”: è tutto l’uomo, nella sua intera esistenza spirituale che si leva e grida, non all’orchestra, ma all’umanità adunata “O amici, non questi suoni!”
Così i confini che delimitano il regno della musica vengono spostati, non a beneficio di una chiarezza (musica e parola) ma a favore di una comunità a cui appartiene l’ascoltatore, che finora ascoltava soltanto i suoni, seduto in silenzio. Questo pensò anche Richard Wagner, attento ed ammirato studioso della musica beethoveniana, quando scrisse: “Non sono le idee espresse nelle parole di Schiller quelle che da ora occuperanno la nostra attenzione, ma il timbro cordiale del coro, cui ci sentiamo attratti ad unire anche la nostra voce, per poter partecipare anche noi, come comunità, ad un ideale servizio divino”.
E’ verissimo: a Beethoven non interessava particolarmente l’Ode di Schiller, e lo dimostra il modo con cui l’ha trattata, delle ventiquattro strofe dei quattro versi egli ne adopera soltanto nove, collocandole in modo libero, quasi arbitrario, badando quindi non al testo, ma alla necessità dello sviluppo musicale (la sequenza delle strofe risulta essere: 1, 2, 4, 5, 7, 8, 12, 3, 9), non era il testo poetico che lo interessava, ma solo ed unicamente l’idea dell’opera nuova e completa nel suo messaggio.
Nel momento in cui la voce entra cade una barriera: l’ascoltatore che fino a quel momento stava in silenzio davanti alla porta, timido e rispettoso, entra prepotentemente nel misterioso regno della musica assoluta, e prende parte al miracolo nel suo formarsi, egli viene trascinato dentro il suono, lo stesso che finora aveva visto scorrere dinanzi a sé, ammirato e rapito. Così si spiega lo specialissimo stato di tensione che ogni degna esecuzione dell’opera desta ancora oggi nell’uditorio, come se, non udibili, si librassero nell’aria le parole con cui Beethoven voleva aprire il finale: “Oggi è un giorno solenne! E’ il giorno dell’ unione mistica dell’uomo con la Sinfonia”.
La prima esecuzione della Nona Sinfonia avvenne nella primavera del 1824, a Vienna: il concerto ebbe luogo dopo innumerevoli difficoltà organizzative di ogni genere, ma l’imponenza e l’eccezionalità della musica vinsero l’apatia e la diffidenza del pubblico (dovute alla ormai nota sordità dell’autore), ed il trionfo fu immenso. Beethoven – che assisteva all’esecuzione nascosto in mezzo all’orchestra tentando di afferrare qualche suono in quanto ormai totalmente sordo - fu costretto dai cantanti a volgersi verso il pubblico. Quando “vide” la folla in piedi che sventolava cappelli e fazzoletti, egli comprese la vastità dell’ovazione e si inchinò con molta semplicità. Gli occhi di tutti gli spettatori si inumidirono di fronte a tanta infelicità…
|
|
|