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Anno 2 Numero 51 Mercoledì 26.03.03 ore 23.45

 

Direttore Responsabile Guido Donati

 

12 anni dopo...

 

di Piero Palumbo

Marines in marcia verso Bagdad, massicci bombardamenti sulla capitale, piloti con gli occhi gonfi esibiti in Tv dopo l’abbattimento dei loro aerei: sembra il remake di un film visto molti anni fa. Sono dodici anni appena. La prima guerra del Golfo cominciò nella notte tra il 16 e il 17 gennaio del 1991 con i bagliori, visti in Mondovisione, del bombardamento di Bagdad. Contro ogni previsione, i giornalisti della CNN mantennero le loro postazioni nella capitale irachena, così che tutto il mondo vide il telecronista Bernard Shaw aprire la finestra della sua stanza all’hotel El Rashid per far ascoltare il fragore delle bombe sganciate dai B52. Poco dopo il presidente George Bush apparve sui teleschermi per informare che l’operazione “Tempesta nel deserto” era ormai in atto. Il governo di Saddam Hussein aveva lasciato trascorrere inutilmente il 15 gennaio, data di scadenza dell’ultimatum rivoltogli dal Consiglio di sicurezza dell’Onu per mettere fine all’occupazione del Kuwait. Era l’ultima chance offerta dall’Occidente al dittatore di Bagdad per uscire in modo incruento dall’impasse in cui si era orgogliosamente cacciato il 2 agosto 1990, invadendo il piccolo Stato proteso sul Golfo. 
Per gli americani fu una stagione di grandi tensioni. Non era la prima volta che i soldati dell’U.S. Army venivano mandati a combattere lontano dalle loro case per affermare principi ideali e interessi nazionali: ma i lampi di Bagdad annunciavano eventualità più oscure, rischi difficili a misurare. La paura di un Vietnam numero due, forse moltiplicato e protratto, affiorava espressa o tacita dai commenti degli editorialisti, dai sondaggi organizzati, dalle esternazioni dei politici. Paure antiche si risvegliavano contemporaneamente in Europa. Parole e timori che parevano dimenticati tornavano d’un tratto attuali: per la prima volta dopo il 1945 gli italiani rividero il fantasma del razionamento, l’incubo della fame, i ricordi della borsa nera. Spaghetti, olio, zucchero sparirono in pochi giorni dai banchi dei supermercati, acquistati in quantità esorbitanti dai cittadini persuasi di dover far fronte a gravi restrizioni alimentari. Le preoccupazioni svanirono rapidamente man mano che i generi di prima necessità ricomparivano sugli scaffali: bastarono pochi giorni. 
Ne bastarono ancora meno per esser certi che la guerra era diventata, avvicinandosi l’anno Duemila, cosa del tutto diversa dai conflitti combattuti dalle generazioni passate. Si capì in primo luogo che nonostante il progresso immenso delle tecnologie o forse proprio per quella ragione la guerra non si sarebbe vista. A milioni di cittadini fermi davanti ai teleschermi la televisione, regina indiscussa della comunicazione di massa, fornì immagini censurate o filtrate secondo le opportunità della propaganda, mostrò verità virtuali 
piuttosto che verità concrete. Gli eventi successivi al 17 gennaio furono raccontati da pochi giornalisti debitamente autorizzati: niente della nuova guerra imprevedibilmente “segreta” si vide in diretta come pareva logico aspettarsi in un mondo attrezzato di satelliti e di infrarossi. Peter Arnett diventò celebre nel mondo per essere stato l’ultimo giornalista a lasciare l’Iraq: ma prima di andarsene fece in tempo a intervistare Saddam Hussein su richiesta del medesimo, desideroso, si pensò, di rappresentare al mondo il grido di dolore del suo paese semidistrutto dalle bombe. Sul lato opposto della barricata, i giornalisti aspettavano, per sapere delle operazioni militari in corso, i reticenti annunci del Pentagono. Rimasta l’unica fonte di informazione “in partibus infidelium”, la CNN fu costretta a mandare in onda colonne di marines in movimento con la didascalia “registrato in precedenza”. In effetti la battaglia fu per trenta e giorni e più del tutto ipotetica, limitandosi le forze alleate a colpire da lontano depositi d’armi, nodi ferroviari, sedi del potere politico e informativo. Le batterie missilistiche irachene reagirono bombardando alcune città israeliane e saudite. Per sua parte, la televisione irachena mostrava con insistenza le immagini della devastazione subita, insistendo sulla natura non militare degli obiettivi raggiunti. Tra una maceria e l’altra si materializzavano le uniformi lacere di alcuni piloti abbattuti e catturati: la propaganda irachena li esibiva come documenti della non invincibilità degli “aggressori”, li costringeva a esprimere rammarico per aver bombardato un popolo mite e pacifico. L’inatteso show riservò un’emozione anche ai telespettatori italiani. Un nostro connazionale, il capitano Maurizio Cocciolone, era scampato all’abbattimento del suo “Tornado” ed era finito nel gruppo dei prigionieri inquadrati dalle telecamere, pesto e rassegnato al pari dei suoi colleghi. 
Catturato insieme al maggiore Gianmarco Bellini, Cocciolone fu l’eroe passivo della partecipazione italiana alla guerra del Golfo. Il governo di Roma non si era sottratto all’esigenza di contribuire al ristabilimento dell’ordine sul Golfo Persico ma il contributo, l’invio di una formazione di cacciabombardieri “Tornado”, risultò meno 
consistente di quelli conferiti da altri (francesi e inglesi parteciparono anche con reparti terrestri). Il bilancio della prima missione aerea non fu esaltante. Degli otto Tornado partiti alla volta di Bagdad con la prospettiva di essere riforniti in volo, ben sei mancarono l’aggancio con l’aereo cisterna, uno dovette rientrare per un guasto al carrello, l’ottavo, quello di Bellini e Cocciolone, fu abbattuto. Ma l’apparizione sui teleschermi iracheni bastò per fare di Cocciolone un personaggio popolare, i suoi trascorsi e i suoi propositi furono argomento di ampi 
servizi giornalistici e il suo matrimonio, celebrato qualche mese dopo il rimpatrio, suscitò polemiche e trattative tra i settimanali che intendevano garantirsene l’esclusiva. Entrambi i piloti furono più tardi promossi e decorati. 
Le cronache registrarono l’aperta protesta dei pacifisti. La decisione dell’intervento armato aveva suscitato dissensi in ogni regione del mondo, a cominciare dagli Stati Uniti. Furio Colombo, allora corrispondente Rai dall’America e oggi direttore dell’Unità, spese energie per analizzare degli stati d’animo che percorrevano in quelle settimane gli Stati Uniti. Il paese che più di ogni altro rischiava in termini di risorse, di prestigio e di vite umane era pressoché unanime nella condanna dell’aggressione irachena al Kuwait ma profondamente diviso sulle misure da prendere: i sondaggi, ineludibile termometro di ogni cosa che accada in quella parte del mondo, attestavano una popolarità di Bush senior prossima al massimo storico e contemporaneamente una poco convinta adesione dei cittadini alla tesi della guerra necessaria. Manifestazioni pacifiste si svolsero un po’ dovunque, rivolte a esorcizzare la morte più che a condannare la guerra. “E’ un pacifismo egoista perché non invoca ideali”, scriveva Colombo. 
In Italia come in altri paesi europei il pacifismo si colorava di altre tinte. Con l’antico pregiudizio antimericano (“Jankee go home”) confluivano le inclinazioni pacifiche delle organizzazioni cattoliche, la sostanziale simpatia per gli arabi di certi ambienti di destra estrema, la vocazione non violenta dei verdi, generiche pulsioni umanitarie. Nessuno di tali schieramenti apparve tuttavia compatto,
Sul versante cattolico il futuro presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni fece parlar di sé dichiarando che la sicurezza del Pontefice era in pericolo. In varie parti d’Italia furono promosse manifestazioni di piazza, pubblici dibattiti, veglie “per la pace”. Il 
governo presieduto da Giulio Andreotti verificò in Parlamento l’esistenza di una maggioranza favorevole alla partecipazione italiana alla guerra anti-Saddam: l’opposizione di sinistra votò contro ma non pochi uomini di cultura (a cominciare da Norberto Bobbio) condivisero, con pubbliche dichiarazioni, la necessità dell’intervento armato. 
Le operazioni militari obbedirono ai criteri strategici adottati degli stati maggiori statunitensi. La consegna era di limitare al minimo la perdita di vite umane. Troppi americani erano stati mandati a morire lontano da casa dal 1941 in avanti, troppe lacrime erano state versate 
per far accettare nuovi spargimenti di sangue a un’opinione pubblica riluttante ormai agli slanci ideali. Per trentasette giorni consecutivi le forze aeree americane e alleate bombardarono senza dar tregua aeroporti, stazioni ferroviarie, postazioni di missili, truppe in movimento. Dopo la prima settimana il capo degli stati maggiori generale Colin Powell, oggi segretario di Stato, tracciò il primo bilancio: dodicimila raid, i radar iracheni distrutti al 95 per cento, annientata la marina. Il 24 febbraio il generale Schwarzkopf, comandante in capo delle forze alleate, lanciò l’offensiva di terra. Vi parteciparono un milione di uomini, 5000 carri armati, 6000 bindati, la più potente forza aerea che avesse mai volato dopo la seconda guerra mondiale. L’esercito di Saddam Hussein si dissolse al primo urto. 29 divisioni furono annientate nel volgere di tre giorni, alla fine tra morti e dispersi le perdite irachene ammontarono a 100 mila uomini, i prigionieri a più di 50 mila. Il 3 marzo i generali di Saddam si arresero senza condizioni. Le perdite alleate risultarono, al confronto, insignificanti. I morti furono 346 di cui 266 americani, i feriti meno di 500. 

 


 

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