CHIEDI ALLA MUSICA STILE E VERITA'
VINICIO CAPOSSELA TRA GUCCINI E CONTE
di Paolo Verri
"Che cos'è l'amor
chiedilo al vento
che sferza il suo lamento
sulla ghiaia del viale del tramonto
all'amaca gelata
che ha perso il suo gazebo
guaire alla stagione andata all'ombra
del lampione "San Soucì'..."
(Vinicio Capossela, Che cossè l'amor
in Camera a sud, 1994)
Allusività e ironia. La cifra stilistica di Vinicio Capossela, anche si annullasse la musica che modula e ammicca ora agli chansonniers francesi ora agli esiti del più recente Paolo Conte, è precisa: fin dal suo primo album, All'una e trentacinque circa, alla malinconia da ritratto govoniano si mescola la gioia di usare la parola, una gioia gozzaniana e bohémienne.
Per cominciare a conoscerlo, si devono però guardare le copertine del primo e del terzo disco: nell'uno, già citato, e pubblicato nel 1990, un giovanissimo Capossela - molto somigliante a Ron - sta sul ciglio di una strada a guardare qualcosa di inenarrabile, maniche rimboccate e alle spalle una notte che passa fatta da camionisti e prostitute. Nell'altro, Camera a sud (1994), Capossela ha acquistato uno sbarazzino pizzetto, i capelli si sono ritorti in boccoli, un sorrisetto furbo gli sta sulle labbra, alle sue spalle è ora esplicito l'interno di un bar dove suonano due musicisti e una scalza etera muove un passo di cha cha cha. Si passa da un fondo nero a uno rosa, dalla nostalgia alla consapevolezza di aver molte storie da raccontare. Ma al di là dei ritratti, lo stile è maturo già nel 1990: il venticinquenne cantautore, allevato alla corte di Renzo Fantini, produttore anche di Paolo Conte e Francesco Guccini, sfodera subito i suoi temi: amore, viaggio, amicizia e raduni conviviali che spesso terminano in uno stato di cercata ebbrezza che sconfigga le cattiverie del mondo. Senza ombra di rimpianti: nonostante la passione per il pianoforte, Capossela non è Cocciante. Soprattutto, affascina la scelta dei vocaboli, la capacità di essere conciso e concreto, di non raccontare genericamente, mai attribuendo alla canzone il ruolo di collettore di sentimenti universali.
E' la necessità di inquadrare il tempo che corre, prendendo ciascuna occasione di vissuto personale e trasformandola in exemplum, a muovere la penna sia sulla pagina bianca che sul pentagramma.
Se si vuole legare la sua storia a quella dei due altri più noti cantautori che lavorano con il produttore Renzo Fantini (una specie di editor - mentore - accompagnatore fidato, certo importante riferimento per tutti e tre) Capossela sta a metà tra il Guccini di Stanze di vita quotidiana e il Conte di Aguaplano, tra il cantore nordamericano alla Lee Masters - a cui Guccini deliberatamente più volte si ispira - e il gaucho fantastico e libero, ora Garcìa Marquez ora Borges, narrazione tutta sulla punta delle dita, tipico di Paolo Conte.
Che gli esiti non siano diversi da quelli della letteratura, e in qualche modo inusuali sia nel panorama italiano, sia esso poetico o Canoro, li testimonia la quinta strofa del testo citato in esordio e per ora non commentato.
Che cossè l'amor (1994) è a oggi la canzone più emblematica della produzione di Capossela:
Che cos'è l'amor
è la Ramona che entra in campo
e come una vaiassa a colpo grosso
te la muove e te la squassa
ha i tacchi alti e il culo basso
la panza nuda e si dimena
scuote la testa da invasata
col consesso
dell'amica sua fidata
Come ha scritto parlando di Rubber Soul, uno degli album più interessanti di quello che continua a essere il più celebre gruppo pop, Beatles, Franco Fabbri in Forme e modelli delle canzoni dei Beatles, articolo preparato per un convegno tenutosi a Trento nel marzo del 1995 e oggi finalmente pubblicato da Feltrinelli nel bel volume Il suono in cui viviamo, anche nel caso di Capossela si tratta di una comedy song, ovvero di una canzone "narrativa, con dei personaggi in cane e ossa, contrapposta [...] alle canzoni di situazione, cantate in prima persona, ambientate in modo generico" (p. 71).
A confronto con i classici interpreti della musica popolare italiana, e anche di alcuni cosiddetti mostri sacri quali Baglioni e Venditti, il primo chiuso nella sua struttura insieme perfetta e claustrofobica, il secondo perso dietro le regole che dettano insieme falsità e successo, Capossela sembra muoversi sulla cresta di cordigliera molto frastagliata, usando la canzone per interventi nel reale che ricordano, pur nella loro brevità, da vicino il primo Tondelli.
Sottraendo alla forza dell'eros morale dello scrittore di Correggio i numerosi personaggi, e concentrandosi su quanto avviene all'io interiore - prerogativa classica del cantautore, che per quanto tenti di ricostruire un nuovo
rapporto con il pubblico deve per forza sottostare alla necessità di dare un ritornello da canticchiare, vera hook in the sky a cui appendere la memoria - Capossela si propone come legame fra la tradizione di quanti oggi calcano le
scene da soli e quei gruppi che si rifanno alla grande tradizione italiana degli anni '70 (capitanata dalla Premiata Forneria Marconi, ma con radici che sfiorano i Nomadi, quanto il Banco di Mutuo Soccorso, quanto le Orme). Si pensi infatti ai nuovi complessi (ma non si offenderanno ad essere definiti cosi?) come Casino Royale,Almamegretta, Mau Mau: in tutti questi casi l'impasto testo-musica si gioca sull'equiibrio tra peso di una narrazione più ironica che realista (anche nel caso delle posse) e innovazione dei ritmi, fatta sfruttando esempi trovati il più delle volte sfruttando la world music.
Capossela estremizza il suo rapporto con la parola fino a giocarci, come fosse - per tornare all'impura letteratura - il Benni di Ballate, usando ora fino all'incomprensibilità la metafora (per esempio in Camminante, 1994, dove scrive: "le labbra strette al nodo dell'orgoglio") per subito scioglierla nell'uso quotidiano di sintagmi proverbiali (nella stessa canzone, alla strofa successiva: "però resto contento / per quello che è passato / mi
porto appeso al cuore una promessa / e qualche bacio rubato / e voglio restar quieto / e sognar disperso / sognar che stiamo noi due soli / nel mare aperto").
C'è per quanto concerne lo stile, che andrebbe tuttavia spiegato - come sempre, credo, quando si parla di musica che non solo si può ascoltare, ma che soprattutto deve vedersi agita, nel suo farsi teatrale - narrando di come Capossela entri in scena ad ogni concerto con i suoi modi da maggiordomo, che s'inchina dopo aver offerto una bibita, barman più ubriaco dei commensali, apparizione quasi stranita che aleggia di magia come un Mefistofele buono dietro il suo piano nero e sempre un poco stonato, tra il pubblico che lo guarda rimpiangendo in lui la scomparsa di un altro suo grande punto di riferimento, Fred Buscaglione.
Di Capossela, perciò, dovrebbe innamorarsi un grande scrittore, un novello Arpino, pronto a riconoscerne le doti non solo di prestidigitazione verbale ma soprattutto di medium lunare.
Invece è il cantautore ad amare la letteratura, chissà quanto ricambiato. E' nella letteratura, in particolar modo in quella americana contemporanea, che Capossela trova sviluppo alla vita quotidiana che intende narrate con efficacia di particolari: in lui stanno ad un tempo Charles Bukowski e John Fante, al quale pare stia dedicando una canzone che apparirà nel prossimo album. Arturo Bandini, il protagonista della saga italo-familiare costruita da Fante e recentemente ripubblicata da Marcos y Marcos (e comprendente Chiedi alla polvere, Aspetta primavera, Bandini, Sogni di Bunker Hill, La confraternita del Chianti) è l'eroe che già sembra popolare molti brani di Capossela. Bandini e il cantautore sembrano procedere appaiati nei fumosi bar padani dove si incontrano mitiche brune o dove si inneggia all'amicizia come unico valore; dove, soprattutto, l'alcol scorre a fiumi, fino a diventare ritornello, come nella canzone che chiude il primo album, dandogli il titolo, All'una e trentacinque circa. Canzone che narra semplicemente la storia usuale dei suonatori che stanno fino a chiusura del locale, tra bionde, camionisti, clienti ed esercenti, suonatori definiti "musicisti, un po' beoni, un poco artisti / compagnoni e nati tristi / sempre afflitti / dal danaro / perchè la roba costa caro / ma l'arte è cosa sacra e seria da salvar / per cento sacchi alla serata / facciamo una vita sregolata / ma il grande mito ci ha fregato / che sei un eroe se sei suonato", mito che sembra essere modellato sul mito della scrittura narrato proprio da John Fante nelle prime pagine di Chiedi alla polvere.
Donne come principesse, malinconia sorvegliata dall'ironia verbale, capacità di vivere la notte con le parole e con la musica; a ribadire, le caratteristiche di Capossela sembrano quasi banali. Risultano invece sorprendentemente vere, in un modo in cui, pur tramontato il vinile, la plastica continua a dominate la produzione discografica.