Duilio Del Prete canta Brel
di Gianni Mura ed Enrico de Angelis
"Per Jacques Brel,
perché lui non c'è più
ma io sì."
Adesso che non c'è più nemmeno Duilio Del Prete, questa sua dedica, che apre il libro delle traduzioni da Brel (Arcana, 1994), ha la stessa carica d'effetto, ma ci consegna un doppio rimpianto (Brel è morto nel '78, Del Prete nel '98) e un nuovo impegno: quello di riascoltare queste canzoni di Brel come fossero anche (lo sono in verità) canzoni di Del Prete. Tradurre non è mai facile. Non è facile tradurre un romanzo, ancor meno una poesia, ancor meno una canzone perché oltre alla metrica vanno rispettati i tempi musicali e ovviamente lo spirito, l'atmosfera, insomma tutto quello che di una canzone fa qualcosa che dura nel tempo, non una sola estate. Come scriveva Duilio, “vanno il più possibile colti e salvaguardati, magari interscambiandoli nella lingua d'arrivo, tutti i ritmi di scrittura, gli aspetti fonici, gli scioglilingua presenti in quella di partenza. Se c'è una architettura di dentali va rispettata”. Per questo non ha importanza se la grossa Adrienne de Montalant diventa la tampa d'Eva di Viggiù e l'Hotel des Trois Faisans il Club Corona d'Oro. Importa che la tenerezza, la rabbia, la passione di Brel si rispecchino nella tenerezza, nella rabbia, nella passione di Del Prete.
Tradurre tutto, di un autore, è una scelta che va oltre l'ammirazione e la scelta di comodo (traduco una canzone perché è bella, perché mi serve). Del Prete di Brel ha tradotto tutto, anche gli inediti, anche le canzoni del primo periodo, quelle un po' da oratorio che avevano portato Brassens a un commento agro (“l'abbé Brel”). La copertina del 33 giri di Del Prete (“La bassa landa/Le plat pays”, 1970): primo piano di Duilio che fuma una sigaretta senza filtro, probabilmente francese. La foto di copertina del libro di traduzioni: primo piano di Jacques che fuma una sigaretta senza filtro, sicuramente francese. Penso che la traduzione, quando non è fatta per lavoro, per obbligo, sia una ricerca di sé nell'altro, che parta da un'affinità di sentimenti, da un modo di vivere la vita. Brel è un grande chansonnier che chiude con la canzone, passa al cinema, al musical, all'attesa di una morte da vivere in piedi. Del Prete è un grande attore che ha sempre amato comporre e cantare (dal Cantacronache di gioventù ad “Amori miei”, da Fausto Amodei a Garinei e Giovannini). La stessa versatilità come attore, dal film sui fratelli Cervi all'“Orlando furioso” con Ronconi, ad “Amici miei” di Monicelli, e per quella parte molti ancora credono che Duilio fosse toscano, mentre era nato a Cuneo. Fino a che punto si possono saldare un cantante che recita e un attore che canta? La mimica, l'estrema partecipazione fisica alle sue canzoni sul palcoscenico sono un pilastro del successo di Brel. Sapendo, da attore, che interpretare vuol dire essere, Del Prete non gli è inferiore nel darsi, nell'essere di volta in volta sognatore e cinico, cialtrone e oppresso, innamorato e respinto, insinuante e indignato. Non a caso le canzoni più amate di Brel restano “Ne me quitte pas” e “La chanson des vieux amants”, tra le poche in cui non affiori la sua vena di misoginia, penso non condivisa da Del Prete. Ma l'antimilitarismo non di maniera, gli sberleffi alla società dei benpensanti, il senso virile dell'amicizia (per me “Attilio” vale “Jef”), la tenerezza, l'ironia, tutto questo autore tradotto e autore traduttore ce l'hanno in comune, ognuno per suo conto.
Non pochi della mia generazione hanno sognato d'invecchiare senza mai diventare adulti e forse qualcuno c'è riuscito. “Entreremo cantando nei muri della vita”, questo è Jacques. “Ma provate ad uscire per imparare a vivere da quelli che si danno per amore, da quelli che si bevono anche il cuore”, questo è Duilio. In questo tempo che smemora e svapora le loro voci sono più di un ricordo e più di un'emozione. C'è da mangiare, ancora, e da bere. E da ringraziare, alla fine, questi due artisti della vita.
Mi aveva preavvertito,
con aria sorniona, che probabilmente non avrei approvato la commistione di brani che lui aveva pensato per lo spettacolo teatrale. Su Brel avevamo lavorato fianco a fianco per il libro con sua opera omnia, ma quando decise di scegliere un grappolo di canzoni e portarle sul palcoscenico – il suo luogo primario – ideò, da buon teatrante, un montaggio particolare, con alcuni pezzi intrecciati fra loro, non necessariamente nei testi integrali (insomma dei “medley”, se non fosse che in questo caso la parola mi appare molto riduttiva). Sapendomi maniacalmente filologo in queste cose, aveva subodorato che queste sue scelte arbitrarie non mi sarebbero piaciute, ma lui aveva naturalmente un suo filo da seguire, un preciso e motivato percorso logico, emotivo e spettacolare. Il risultato è quello che si sente in questo disco, che documenta una impeccabile prova di studio per quella messa in scena.
Il lavoro su Brel ci legò profondamente, ma la nostra era una vecchia amicizia. Lo conobbi nel 1970, quando, innamorato da sempre di Catherine Spaak, con la scusa di intervistarla andai tra le quinte del musical “Promesse promesse” per conoscerla, ma avvistatala nei corridoi mi emozionai tanto che infilai il primo camerino e intervistai Duilio Del Prete. L'amicizia che ne nacque non fu comunque frutto del caso, perché io avevo già amato da morire i due primi (e unici!) album di Duilio. Dove, oltre alle sue bellissime canzoni (tutte ancora da riscoprire), c'erano alcune sorprendenti versioni italiane di Jacques Brel, dal quale in quegli anni aveva personalmente ottenuto l'autorizzazione esclusiva a tradurlo.
L'amicizia si rinsaldò, in particolare, al Club Tenco, dove approdò presto, nel '76. L'anno dopo portò proprio il repertorio breliano; poi tornò ancora nell'85 e nell'89. Con Amilcare Rambaldi e con tutti noi coltivò un bel rapporto, anche al di là delle occasioni di spettacolo, e quando Amilcare se n'è andato, Duilio è stato tra quegli artisti che sono venuti a dargli l'ultimo saluto, a dirgli grazie. Ultimamente, alle cene del Club, si era creato un tormentone che ogni tanto si intonava in coro e diceva Ah… che bell'omm Duilio. L'esclamazione era uscita dalla bocca di una delle Gemelle Nete, piemontesi come lui. Ed ' rimasta in circolo fra tutti noi, che lui ci fosse o no, anche perché ci credevamo davvero che Duilio fosse un bell'uomo. Lo era nel portamento, nelle rughe degli occhi, nello sguardo sempre affettuosamente ironico, nel sorriso che metteva tranquillità, nell'eleganza colta di quel che faceva e diceva, nell'intelligenza acuta, nella disponibilità semplicissima ad essere sempre presente – e a lavorare sodo, anche – ogni volta che il Club ne avesse bisogno. Qualunque cosa Amilcare o chiunque di noi gli chiedessimo per le nostre idee o le nostre attività, lui era pronto, diceva sempre di sì. E, a teatro o dopo teatro, ci portava sempre delle cose belle: tutta una memoria storica di musica che possedeva, le sue canzoni, quelle di Brel, quelle dei Cantacronache, quelle di Calvino. A tutti i costi Amilcare aveva voluto all'Ariston quel suo spettacolo, “Realgar”, dove Del Prete cantava Calvino e Grazia De Marchi Pasolini.
Poi, nel '94, ho avuto l'occasione di curare un libro con l'opera integrale di Brel: testi originali e traduzione a fronte. Non ho avuto dubbi nello scegliere il traduttore. Cominciai a preoccuparmi solo quando mi accorsi che i mesi passavano senza accadesse niente e, soprattutto, quando Duilio mi comunicò che intendeva farne versioni tutte cantabili. Duecento traduzioni ritmiche, mi sembrò un'impresa folle e inutile, in fondo si stava facendo un libro come tutti gli altri, mica un disco, e cercai invano di dissuaderlo. Si calò nell'impresa all'improvviso, affrontando il lavoro come niente fosse, sbrigandolo in brevissimo tempo, e con uno spessore poetico di raffinata tessitura. Ogni tanto gli telefonavo per qualche difficoltà e lui, improvvisando al telefono, si metteva a cantare trovando subito la traduzione giusta, perfezionandola continuamente.
Come si sa, Duilio è stato un attore di cinema e di teatro, ha lavorato con Monicelli e Bogdanovich, Germi e Losey, Strehler e Ronconi. Curioso ed eclettico, troppo versatile per raggiungere la grande fama popolare, l'aveva sfiorata con “Amici miei”, ma non bissò quel successo perché fu l'unico a mantenere l'impegno preso con Germi di non girare un “Amici miei 2”. Noi sappiamo però che la sua passione prima era nella musica: la canzone teatrale, il cabaret, il musical. Non si conosce abbastanza, questo suo lato. Già alla fine degli anni '50 aveva aderito allo storico movimento torinese dei Cantacronache, portando il suo incisivo contributo, graffiante e insieme tenero, ad una nuova canzone di impegno civile, di satira e di critica sociale, che poi frequentò sempre. E' stato un cantautore di alta classe, sia come autore che come interprete. Intendo in scena, in teatro: perché il mondo discografico è stato troppo ottuso per dargli spazio, e lui del resto se n'è infischiato bellamente. Così adesso sono rari, purtroppo, i documenti registrati della sua voce. Uno – affettuosamente conservato da Cristiana e da Patrizia, la figlia e la compagna -, è questo che il Club Tenco e Alabianca hanno deciso pubblicare, con temerario sforzo economico, alleviato dall'illuminata adesione – grazie all'assessore Gianni Borgna, uno che di belle canzoni se ne intende – del Comune di Roma, la città dove Duilio aveva scelto di vivere e dove nel febbraio del 1998 è stato bruscamente strappato alla nostra affettuosa ammirazione. Adesso che abbiamo potuto realizzare questo disco, capisco davvero perché aveva voluto farle cantabili, quelle traduzioni. Per il duraturo piacere del nostro e del vostro ascolto.