Note sulla lingua dei cantautori
dopo la rivoluzione degli anni '60
di Tullio De Mauro
S'éparpillent comme une nuée de petites filles dans la cour
D'un pensionnat sévère
Après une dictée où Le cœur m'en dit
S'écrivait peut-être Le cœur mendie
1. Hanno un posto, e quale, le scelte e gli usi linguistici delle canzonl nella storia linguistica della società italiana? Ecco domande cui la letteratura specialistica di linguisti e filologi non si è molto curata di dare risposte sufficientemente meditate. Non presume di farlo questa breve nota, ma essa vuole almeno pretendere di porre la questione e di avviare una ricerca, almeno a partire dalle canzoni dei liguri e di altri negli anni '60.
Intanto, è un dato da meditare quello già evocato, cioè la mancanza d'attenzione scientifica dei linguisti. Diversamente da questi loro colleghi, gli studiosi di antropologia, sociologia della cultura, folklore, musicologia hanno fatto e bene il dover loro. E nei loro studi, nelle ricerche di Liberovici, Jona, Ionio, Eco, Straniero, Braga e Leydi, troviamo anche osservazioni e materiali per osservazioni linguistiche. Ma dinanzi alla messe di sistematiche rilevazioni propriamente linguistiche esistenti per altre sezioni dell'uso linguistico contemporaneo di massa - dal fumetto alla scritta murale, dalla pubblicità al parlato radiotelevisivo, per tacere dei generi più esplorati, parlato del cinema e scrittura di giornali -, non c'è niente di paragonabile a proposito del linguaggio delle canzoni in Italia. E' il caso di citare il vecchio Aminta:
"il silenzio ancor suole / aver [.. .] parole".
Il silenzio degli specialisti può essere assunto come significativo e usato come prima rudimentale chiave interpretativa per aprire il discorso. L'ipotesi che si può formulare è la seguente: il silenzio degli specialisti di studi sul linguaggio non è casuale, ma è direttamente legato alla povertà di scarti dalla norma, alla mancanza di tratti linguistici salienti nel linguaggio delle canzoni. 0, almeno, questa è l'impressione che il linguaggio delle
canzoni ha fatto ai cultori di linguistica.
La limitazione appena introdotta va precisata. In verità il linguaggio della canzone italiana degli ultimi cinquanta e degli ultimi dieci anni mostra, a un'osservazione più attenta, la presenza di alcuni scarti: scarti, per dir così, negativi, di ritardo, per tutta un lunga fase che giunge, e
vorremmo fermarci sull'eccezionalità di ciò, fino agli stessi anni '60; e scarti in positivo, di precoce riconquista colta e urbana della dia1ettalità e della colloquialità, negli ultimi dieci anni.
2. Nella storia della versificazione colta, prodotta e letta in un ambito di cultura linguistica e letteraria alta, una grande svolta linguistica si colloca, come si sa, agli inizi di questo secolo ed è registrata per cosi dire sul campo, nell'operare medesimo, da Guido Gozzano.
Unica delle grandi naziona1ità europee, per quattro secoli l'italiana ha vissuto una condizione indiana: si è riconosciuta in una lingua di cultura e produzione letteraria che, fuori di un'area geografica ristretta e sempre più isolata, la Toscana centro-settentrionale, non aveva alcuna consistente base sociale reale. Quando leggiamo in Gozzi, Manzoni, Settembrini che l'italiano era una lingua "morta"", dobbiamo guardarci dall'assumere la qualifica in senso metaforico, sentimentale: si tratta d'una qualifica propriamente tecnica, nel senso che, fuori della Toscana, meglio, di Firenze e dintorni, l'italiano era una sorta di sanscrito o di latino medievale, una lingua letta e scritta, ma non parlata. E letta e scritta da strati esigui di popolazione pienamente alfabetizzati, cioè, al momento dell'unificazione politica nazionale, da meno dell'1% della popolazione.
Lingue "vive e vere" delle società regionali preunitarie erano gli idiomi locali, i vari dialetti. L'uso dell'italiano, affidato a scritture colte destinate a colti, non aveva correlazioni, fuori di Firenze, con un uso sociale vario e di massa.
Discendono di qui, come altrove ho mostrato, molte caratteristiche interne della tradizione e del patrimonio linguistico italiano. Discende di qui, tra l'altro, l'ancoraggio della lingua dei versi a momenti linguistici remoti, al vocabolario del petrarchismo. Linguisti e filologi, come De Lollis ed Elwert, hanno ben studiato questo fenomeno e messo in luce l'infittirsi dei tentativi di rottura con il vocabolario arcaico registrabili già nell'Ottocento, tentativi a capo dei quali sta, a mio avviso, lo stesso Leopardi.
Ma la questione non era solo da e per letterati. A un rinnovamento dei moduli espressivi della versificazione era possibile andare soltanto in un quadro linguistico di massa nuovo. Questo si determina quando, mezzo secolo dopo l'unificazione politica, gli effetti economici e sociali dell'evento politico cominciano a farsi sentire anche negli usi linguistici e nelle grandi città (Torino, Milano, Roma, Napoli) si afferma nei gruppi borghesi e nelle avanguardie organizzate del movimento operaio l'abitudine a parlare italiano. E' il decennio giolittiano. In pochi anni, chi scrive letterario in Italia si trova nella condizione di altri paesi del mondo: le sue scelte sono in rapporto dialettico con una contemporaneità linguistica varia e mobile, non più con Bembo e Metastasio.
Gozzano vive il fenomeno e lo testimonia. Il largo ricorso alla colloquialità si accompagna in lui alla coscienza dell'ormai avvenuto invecchiamento dell'armamentario linguistico tradizionale della versificazione nazionale. Tra "le buone cose di pessimo gusto" del salotto di nonna Speranza c'è anche questo, ci sono gli "innamorati dispersi gementi il cor e l'augello", ci sono i "dolci bruttissimi versi" che Val la pena rammentare:
Caro mio ben
credimi almeno,
senza di te
languisce il cor!
Il tuo fedel
sospira ognor
cessa crudel
tanto rigor!
Da quel momento, la lirica italiana, con esiti di vario valore, cercherà costantemente il rapporto con il linguaggio della prosa, del parlato, con l'italiano finalmente "vivo e vero" che, tra ritardi e strozzature d'ogni sorta, prende ad affermarsi come strumento di comunicazione per masse crescenti, le quali alla metà degli anni '60 si avviano a conquistare la maggioranza assoluta rispetto alle masse ancora rilevanti prevalentemente legate all'uso dei dialetti.
Ebbene, l'esperienza di rottura con l'armamentario tradizionale e la consapevolezza della rottura sono vissute dalla canzone italiana con circa cinquant'anni di ritardo.
3. La consapevolezza della rottura la troviamo registrata in una intervista di Tony Dallara, raccolta da G. De Maria nel dicembre 1960: mezzo secolo dopo Gozzano: "D. Le pare importante il testo di una canzone? R. Molto importante [...] Oggi, sì, il pubblico ascolta le parole. Una volta no [...] Tutte le canzoni parlavano d'amore, di baci, tesor [...] anche i cantanti le dovevano cantate, tutti, allo stesso modo. Oggi, invece, no, finalmente. Perché queste canzoni [...] le abbiamo trasformate e le abbiamo cantate come abbiamo voluto [...] Oggi come oggi, si ascolta sia musica che parole ed è molto importante".
Quello che è stato chiamato il "modo italiano" fatto d'un "melodismo vecchio e di maniera" (Leydi), si impasta con scelte di contenuto artificiose e monotone e con scelte verbali obsolete: abuso di troncamenti, ricorso al vecchio "vocabolario poetico".
Ferdinando Ingarrica, il rozzo e comico, ma significativo magistrato borbonico, con le sue scombiccherate strofette ("Stronomia e scienza amena / che l'uom porta a misurare / Stelle, Sol e 'l Glob Lunare, / e a veder che vi è lassù .."), l'Ingarrica pare il maestro di buona parte della versificazione italiana per canzonette fino ad anni a noi sorprendentemente vicini. Dallara aveva ragione, anzi "avea ragion".
Si rammentino ad esempio la "qual seduzion ognun prova" dell'Alcova (Bixio-Cherubini, 1921), la "beffa atroce all'uman dolor" (Rulli-Borella, Addio Tabarin, 1922), il grande Tango delle capinere (Bixio-Cherubini, 1922): "Hanno la chioma bruna, / hanno la febbre in cor. / Chi va a cercar fortuna, / vi troverà l'amor". Nel 1929 Schoor e Cherubini ci regalano ancora "un desio d'ebbrezza e nulla più" (Re di Cuori). Troncamenti si accumulano in Sciangai-Lill di Warren-ZorroDubin (1932): "Occhi a mandorla che invan / tenti di tener lontan / se ti fissano un istante / il cor ti fan tremar".
Arriviamo agli anni del conflitto mondiale. Troviamo, in testi ancora non dimenticati, sequenze come: "E nel sognar / la sua visione [di Schubert, che nella canzone è pronunziato alla francese secondo una radicata convinzione dell'itala gente dalle molte vite e dalle poche lingue straniere, che per due secoli ha ridotto a francese ogni altra lingua straniera, ed ora si avvia a ridurre tutto inglese, come i Soviets insegna] m'appar / ed un nostalgico amor m'avvince ancor; oppure: "vieni con me in campagna / [...] verso un semplice nido d'amor / sotto l'arco del ciel / dove ci amerem come gli augel".
Vento del Nord, Zazà e Isaia, Eulalia Torricelli non riescono a spazzare via quella che, nel 1952, in un catalogo di canzoni Alberto Cavaliere denunzia come la "inflazione di cuor e amor". Il boom della canzone franco-americana restò un fenomeno colto, sopraffatto nella massa fino a metà degli anni '60 da marcate preferenze per la canzone tradizionale. I sondaggi del Servizio opinioni e degli istituti demoscopici ancora in quegli anni fanno registrare il primato di canzoni come le allora ancor recenti Non ho l'età e Una lacrima sul viso, seguite da Mamma, Arrivederci Roma, 0' sole mio, Torna piccina mia, Santa Lucia, Torna a Sorrento, Parlami d'amore Mariù.
Tuttavia è già cominciata, anzi è pienamente in atto quella che Eugenio Montale ha chiamato di recente l'"esplosione nucleare sotterranea" della televisione. Bruscamente, rapidamente, si allargano le categorie di consumatori, ma anche il loro orizzonte si amplia, si articola. E le articolazioni nascenti si confondono. Scrive Leydi sul finire degli anni '60: "Musica seria e musica leggera, musica da camera e jazz, musica sinfonica e canzone [..] insieme entrano a comporre il paesaggio musicale del tempo in cui viviamo".
Accanto al vecchio "modo italiano" si affermano quelle che un giovane intervistato in un sondaggio del 1967 chiama "le canzoni che parlano di cose vere: sono canzoni assai varie, per ispirazione, per destinazione e linguaggio, per disponibilità intrinseca o (come è stato mostrato da Liberovici a proposito d'un testo assai bello di Fortini) additizia alla commercializzazione avvilente. I gruppi e cantanti, spesso su diversa sponda culturale e ideologica, tra loro non sempre si amano: Nuovo Canzoniere, Betti, Bella ciao, Monti, Vanoni, Gufi, Jannacci, i liguri, Endrigo sono realtà certamente diverse e tuttavia hanno in comune la scelta o almeno l'aspirazione alla scelta della realtà: interlocutori reali, per parlare di cose vere, in un modo che cerchi di farsi capire".
Il vecchio modo, si badi, non è ancora morto se ancora alla fine degli anni '60, i Gufi, in un loro spettacolino, da una parte sfottono il folk revival (con la Ballata dilli Mammi e quella dilli Casalinghe), dall'altro possono ancora dilettare il pubblico con la satira del vecchio modo: "Al cimitero è bello andar / con la ragazza a passeggiar / e sui cipressi le iniziali / scolpir dentro al cuor / e [...] felici far l'amor. / Se sei sposato o adulterin /
al cimiter c'e un delizioso posticin".
In effetti, si spinge fino agli anni '60 la documentazione di troncamenti abusati, di "cuor", di "amor" e, in omaggio alla "diccì", di "Redentor" (Cheruhini-Concina, Jerusalem). Claudio Villa, in testa alle classifiche, canta: "Che cosa vuol dir / mi par di capir". Si danno ancora, anzi "ancor" (Panzeri-Mascheroni) baci "con ardor" (Fusco-Testoni) che fanno "morir" (D'Arena-Testoni). E c'è ancora chi vuole acquistare "una nuvola in ciel / per festeggiar la luna di miel". I Gufi non sbeffeggiano un cadavere, ma un gusto linguistico ancora vivo in quelle zone sociali e di produzione di canzoni ancora preda della degenerazione libresca della cultura, collegata alle modeste possibilità e inclinazioni alla lettura e conoscenze indotte da una scuola ferma al povero Valentino vestito di nuovo e all'infame "Cuccurucù / E' nato Gesù", presente nei democristiani testi obbligatori di lettura per le patrie scuole elementari.
4. Lauzi,Tenco, Bindi, Paoli, De André e Sergio Endrigo, che è subito uno dei più accettati o meno rifiutati su scala di massa, sono tra gli innovatori. Nell'impianto formale delle loro canzoni domina la prima persona singolare. L'interlocutore, il "tu", è il compagno o la compagna, qualche volta un oggetto o luogo idealizzato, personalizzato nella memoria, come la Vecchia balera di Endrigo.
Soltanto nelle canzoni di De André troviamo un impianto più mosso: il "noi" della Canzone del Maggio, la improvvisa rottura del racconto-rievocazione tra terza e seconda persona con una lirica e drammatica intrusione dell'apostrofe in prima persona a Ninetta nella ballata di Piero, modulo che gioca in senso ironico nella ballata di Re Carlo.
Non è compito specifico di questa nota fermarsi sui contenuti, se non per segnalare la varietà loro, il loro carattere che è o di storia vera o dichiaratamente di sogno, di favola ironica. Quest'ultimo è un elemento significativo su cui val la pena di fermare l'attenzione.
Come si sa, un grande storico francese, Paul Hazard, sostenne che l'Italia era l'unico paese europeo privo d'una letteratura per l'infanzia e giocosa degna della grande letteratura. Ciò è, e non è, vero. E' vero se ci riferiamo alla produzione in italiano, con l'eccezione dei non casualmente toscani Pinocchio e Vamba. E' falso se ci riferiamo al complesso della produzione nazionale: in verità, è esistita in Italia una eccezionale produzione ironico-giocosa, anche di splendidi non-senses, e favolistica per l'infanzia: ma si è inalveata nei dialetti, la lingua comune essendo fuori di Toscana sanscrito che già s'è detto. Non si parla con e per i bambini, e nemmeno si scherza, usando latino o sanscrito o avestico.
Gli anni '60, con la piena maturazione del possesso della lingua comune da parte di larghissime masse, ci hanno dato anche questo: l'avvio d'una letteratura per l'infanzia, il Corvo di Lodi, Rodari prosatore e poeta. Gli autori liguri e triestini sfruttano questa possibilità largamente. La vecchia lingua parruccona, diventata lingua di grandi masse, parlata bene o male un po' dappertutto e ai fini più vari, comincia anche a vestire finalmente lo scherzo, l'ironia, l'invenzione per bambine e bambini. Re Carlo, La bella Tartaruga, molte canzoni di Endrigo sono testimonianze di questo fatto che è nuovo, nuovo nella storia della complessiva vicenda linguistica e storica della società italiana. Il fatto che esso sia ben commerciabile, paghi e paghi bene, il successo del disco Endrigo-Rodari e altri fatti consimili debbono farci capire gramscianamente che evidentemente questo fatto, questa tendenza rispondono a bisogni diffusi e profondi.
Battere queste strade di contenuto, di scelta di interlocutori, un contenuto variamente realistico, realisticamente ironico e giocoso, interlocutori capaci di accettare, anzi di avere bisogno di questi contenuti, giovani, bambini, questo - nell'accezione più rigorosa che in sede teorica dobbiamo difendere per il termine - è già "linguaggio". Le scelte ulteriori, linearità sintattica della frase, ritmo che nasce con le parole, non prima e non dopo, parole di largo accesso o, se auliche, ironizzate, stanno, come coerenti conseguenze, dentro le scelte di contenuto e di interlocutori considerate già come scelte di linguaggio.
5. Tuttavia qualche cosa di più puntuale può e deve dirsi di quelle che in senso stretto e riduttivo si chiamano scelte di linguaggio: parole, locuzioni. Se per quarant'anni dall'avvento della radio l'armamentario vocabolare della canzone italiana ha scartato rispetto alla norma perché risultato di una marcia attardata, di retroguardia, con gli anni '60, e con gli autori qui in questione, non abbiamo una semplice accettazione della medietà linguistica, e già sarebbe ed è, come abbiamo cercato di dire, un fatto innovativo. A me pare che qualche scarto si possa registrare nel senso d'un privilegio accordato a locuzioni e modi accentuatamente colloquiali, tritamente usati nell'italiano delle grandi città. Ecco una serie di esempi di Endrigo: "potete anche gridare / fare quello che vi pare", "la pura verità", "pensa noi due a salutare". E Bindi: "con una stretta di mano, / da buoni amici sinceri, / salutiamoci...". E Lauzi: "quando mamma mia per sempre se ne andò", "noi la si guardava", "era speciale come parlava di te". E Tenco: "io sì che t'avrei ecc." E Paoli: "State tranquilli che siete voi gli unici padroni del mondo".
A livello alto, elementi aulici ci sono solo per gioco, come il "pria" del Carlo di De Andrè ("Ben mi ricordo che pria di partire / v'eran tariffe inferiori alle tremila lire"), secondo un modulo sfruttato già, come è noto, da Petrolini e Totò. A livello basso, ci si scosta dalla colloquialità solo nei limiti del colloquialmente, urbanamente lecito: il culo è detto "sedere" da De André, che non si spinge oltre un "fregare", così come Endrigo si accontenta d'un "cretino" per insulto.
La quotidianità linguistica è il serbatoio cui attingono i nostri. E, su questa strada, incontrano anche "la rima fiore / amore / la più antica difficile del mondo". Poiché anche l'incanto fa parte della realtà, anche l'alta invenzione letteraria.
In una nota rapida come la presente, le asserzioni debbono valere solo come prime rudimentali ipotesi. Una fonte cospicua letteraria è indiretta, e vale soprattutto per De Andrè: è il surrealismo francese che arriva di carambola, attraverso la canzone francese vissuta in Italia come fatto colto. Ma vi sono anche, a me pare, echi di voci italiane: Pavese di Lavorare stanca e delle ultime liriche in Tenco, nella parte centrale di Sapore di sale di Paoli; e tutto un china di ricorso alla quotidianità linguistica sfruttato dai maggiori lirici italiani del Novecento, da Saba fino al Montale di Satura.
In G. BORGNA - S. DESSI, C'era una volta una gatta. I cantautori degli anni '60, Savelli, Roma 1977, pp. 133-139.