JEAN CLOUZET INTERVISTA
JACQUES BREL

"Quelques questions posées a Jacques Brel par Jean Clouzet".
Da un'intervista del 1964, pubblicata nel volume "Jacques Brel" nella collana "Poètes d'Aujourd'hui".

Quali sono le ragioni precise per le quali lei considera la canzone come un'arte minore?


La canzone non è un'arte maggiore né un'arte minore. Non è un'arte. E' un campo estremamente povero perché è legato a molte discipline. Vi sfido ad esprimere chiaramente anche la più piccola idea in tre strofe e in tre ritornelli. Attualmente sto scrivendo una canzone che si chiamerà “Un Enfant”. Se mi date dieci pagine, vi spiegherò come io vedo l'infanzia. Ma una canzone non dura che tre minuti, le dieci pagine devono ridursi ad un verso: “Les enfants… et ça tue vos amants nos maîtresses”, verso che rischia fortemente di passare inosservato. E non è possibile dire di più senza squilibrare la canzone, ma neanche dire di meno se non si vuole correre il rischio d'esprimersi in maniera troppo concisa.

Inoltre le idee si scontrano con il lato strettamente tecnico. Scrivere un poesia significa sedersi, prendere una penna e lasciarsi guidare dalla propria immaginazione. Il verso libero offre una grande libertà. Lo stesso alessandrino pone meno restrizioni delle discipline che reggono la canzone. E poi, la musica è una cosa meravigliosa e alla quale porto il più grande rispetto – non penso che sian “rumori che costano cari”, come affermano alcuni intellettuali -, tuttavia perde molte della sue qualità nel momento in cui viene posta a servizio del testo. Non c'è niente di più fastidioso che mettere una nota sotto una parola. Tra tutte le arti, nessuna è così irrigidita come la canzone. Infine, non bisogna dimenticare che la canzone è destinata ad essere passata in radio, in circostanze nelle quali tutti sentono ma nessuno ascolta, e nelle music-halls, bisogna quindi essere a metà tra un equilibrista e un giullare. Ed è molto difficile.


Vuole parlarci di “Jean de Bruges”?


Jean de Bruges è un poema sinfonico, del quale io ho scritto il testo e François Rauber la musica. E' un'esperienza che abbiamo fatto per divertirci. Siccome questa opera è un pretesto alla musicalità, il testo non ha nulla di eccezionale. Io non lo canto, mi accontento di recitarlo. Jean de Bruges mette in scena un marinaio, di qualche centinaio d'anni fa, che racconta storie “marsigliesi” a chiunque voglia offrirgli da bere. Di queste storie, ne abbiamo scelte tre. Nella prima, si racconta come si sia innamorato della piccola sirenetta di Copenaghen. Nella seconda, si spiega come un tempesta abbia, nei tempi che furono, fatto dell'Inghilterra un'isola separandola dal Belgio. La terza, infine, è dedicata ad una mostruosa balena che, sanguinando, avrebbe formato quello che oggi chiamiamo il mar Rosso.


Lei non sembra apprezzare particolarmente la canzone “Quand maman reviendra” poiché non la interpreta mai sulla scena. Come mai?


E' esatto, non amo molto questa canzone. E ci sono molti motivi. L'avevo, in un primo tempo, scritta su una musica differente da quella che voi conoscete, poi ho dovuto rifarla interamente. Ma non sono riuscito a realizzare ciò che desideravo realmente. L'azione doveva svilupparsi nella periferia di una grande città degli Stati Uniti. Ho voluto raccontare il proletariato, ma la verità è che non faccio parte di questo mondo. Ho voluto ritornare nella pelle dei miei vent'anni, che non ho più. Ogni volta che tento d'imbrogliare me stesso, vado incontro all'insuccesso e, in fondo, credo che questo sia un bene. Nel momento sono in buona fede, credo d'essere sincero. Sono realmente convinto dei miei vent'anni. Sono seduto su un marciapiede, in una città operaia, mi consolo come un imbecille. Vi giuro che ho veramente l'impressione d'essere onesto. Quando tutto è terminato, scopro di non esserlo realmente: ma è troppo tardi. Ecco come si sbaglia una canzone.


La infastidisce pensare che la gente possa assomigliare ai personaggi delle vostre canzoni?


Sono rassegnato. Non lo vorrei, ma l'accetto. Posso anche dire che sono quasi contento quando qualcuno mi dichiara che considera questa o quella mia canzone come una canzone d'amore. Se gli fa piacere di credere questo, tanto meglio per lui. C'è, in un libro di Daninos, un turista che, arrivando a Venezia, esclama estasiato: “E' Bruges!”. Non trovo che questo sia ridicolo. Se l'accostamento con le due città è per lui un motivo di gioia, questo è positivo.


Perché nella canzone “Bruxelles” lei ha tracciato il ritratto di una Bruxelles anteriore a quella che lei ha realmente conosciuto?


Sì. Ho descritto, effettivamente, la Bruxelles del 1900. Se non ho pensato alla città della mia infanzia è perché non l'ho mai amata abbastanza e non avrei avuto niente d'interessante da dire. Ma è giusto precisare: la Bruxelles della mia canzone avrebbe potuto essere Bordeaux o qualsiasi altra città.


Quando lei parla dell'infanzia, fate spesso intervenire la parola “far west”. Qual è il suo “far west” quando eravate piccolo?


Ma io non ho mai avuto il far west. Me l'hanno rubato. O piuttosto non me l'hanno mai dato. Me l'hanno rubato nell'istante stesso in cui me l'hanno vagamente promesso. Si promette allo stesso modo Babbo Natale, si assicura che l'amore è eterno fino al giorno nel quale capiamo che si tratta di menzogne. Quando ero piccolo, si sono dimenticati d'avvertirmi che il far west e l'amore non sono che delle farse. Oggi i bambini hanno talmente “mal di far west” che si vestono, più o meno tutti, da cow-boys. Ma non c'è più il far west. Non ci sono che i cortili delle fabbriche, dei fuochi rossi, dei poliziotti e la pensione. Avrei voluto avere un vero far west, ma non è stato possibile. […] Ora so che non ci sono i buoni da una parte e i cattivi dall'altra. Non ci sono gli Indiani. Ci sono persone che un istante fanno gli indiani, l'attimo dopo si trasformano in Buffalo Bill. Può esser questa la ragione per la quale le mie prime canzoni era più dirette di quelle più recenti. Meno reticenze.


Lei crede veramente che si possa, come nel vostro caso, essere padre di famiglia e non vivere coi figli che qualche giorno all'anno?


Lo credo visto che, a mio avviso, la paternità non esiste. E' una condizione dello spirito. La maternità esiste e la tenerezza della madre è indispensabile. Al contrario, è quasi impossibile per un padre stabilire un dialogo veritiero con i suoi figli. Sono terrificato dal numero di subordinati che lavorano negli uffici e che giocano a fare i generali non appena rientrano a casa. Figuriamoci i capo veri! Credo proprio che questo non faccia bene ai bambini. Non vedo nell'interesse dei figli vedere a casa, ogni sera, un signore che non gli dirà niente di appassionante perché appiattito dalla routine, che va a sedersi, a mettersi in pantofole, ruttare a fine pasto, e poi spostarsi davanti al televisore gridando “Forza, bambini, a letto che è ora!”.

La quotidianità demolisce tutto. Da parte mia, ci tengo assolutamente ad avere al mio fianco, di tanto in tanto, i miei figli. Nell'occasione di una tournée, per esempio. Lì possono vedere l'uomo che esercita la sua funzione d'uomo. Poiché non c'è niente di più ridicolo di un uomo che non faccia l'uomo. Avete mai visto un grande chirurgo giocare a biliardo? Questo non interessa a nessuno e soprattutto ai suoi figli. Sarebbe meglio se fossero allevato da un chirurgo che si fa vedere all'opera piuttosto da uno che gioca a biliardo. I bambini di tutto il mondo sono allevati da chirurghi che giocano a biliardo. La madre, invece, è al riparo dalle critiche perché gioca continuamente a biliardo. Il padre spesso pretende d'educare i suoi figli in un momento della giornata in cui non ne ha più la voglia, non ha più niente da dare. Non parliamo poi dei genitori che litigano in ogni momento dell'anno, ma che restano insieme per abitudine o per pigrizia. Si lanciano dei piatti e si stupiscono che i loro bambini siano traumatizzati! Io non so se voi abbiate mai prestato attenzione al numero impressionante di bambini che non sopportano il rumore. Un piatto si rompe e loro sobbalzano. Ho conosciuto bambini che si mettevano a singhiozzare quando una posata cadeva. Tutto ciò è desolante.


Lei non ha o non ha più la fede, come spiega che molti cattolici, soprattutto tra i giovani, sono persuasi che voi siate uno di loro?


Quando voi dite ad un membro dei giovani cattolici che X o Y non sono cattolici, si sorprendono sempre. Solo Sartre scappa dalla loro rete. Al contrario, sono persuasi che Camus sia cristiano di spirito. Ho letto, l'altro giorno, in una rivista religiosa, uno studio intitolato “Brassens e il cattolicesimo”. Sono contento di apprendere che l'Auvergnat sia una delle più belle canzoni cattoliche che siano mai state scritte; per la sua carità che vi è espressa, che è il tema maggiore, la canzone non può che essere d'essenza cattolica. Quello che è divertente è che se voi andate a fare un giro nella sponda dei giovani comunisti, si dirà: “Brel? E' comunista.” Si dirà questo perché ho partecipato alla festa dell'Umanità e al congresso mondiale della gioventù a Helsinki. Questo è dimenticare che io partecipo a questo genere di convegni o di gala, che siano di natura politica o religiosa, quando credo di scoprire qualcosa che assomigli alla generosità. La generosità. Non la carità. Io detesto la carità. Passo il mio tempo a farla semplicemente perché sono troppo debole per imporre la giustizia.


Perché l'insuccesso ha una così grande importanza nella sua opera?


Ma perché l'insuccesso è, nella maggior parte dei casi, quasi inevitabile. Noi andiamo verso uno scopo che ci siamo fissati. Ma siccome noi manchiamo di forza, i nostri obiettivi non sono abbastanza validi per giustificare la strada che facciamo verso di loro. Non ci fissiamo una meta su una strada, ma questa strada non esiste. Lo scopo si inventa e la strada si immagina. E' certo che tutto questo non può durare. Per riuscire in qualche cosa di serio in queste condizioni bisognerebbe essere per metà degli uomini e per metà degli dei.


Lei ammette d'essersi inacidito nel corso degli anni nelle sue canzoni?


Inacidito? E' una parola che rifiuto. Si possono utilizzare molti termini per descrivere la mia evoluzione sulle varie problematiche, ma “inacidito” certamente no. Se io mi fossi inacidito, credo che avrei smesso di cantare. La differenza di tono tra le mie vecchie canzoni e quelle nuove si può spiegare differentemente. All'inizio avevo, beatamente, i miei vent'anni. Oggi è mutato il mio rapporto con il mondo esterno.


Cosa rappresenta per voi la tenerezza?


Io amo la tenerezza. Amo donarla e riceverla. Ma credo che, in linea generale, noi manchiamo tutti di tenerezza, indubbiamente perché noi non osiamo darla e non osiamo riceverla. La tenerezza dovrebbe provenire dai nostri genitori, ma la famiglia non è più quel che era un tempo. La tenerezza svanisce a poco a poco e il dramma è che non viene rimpiazzata con qualcos'altro. Le donne, in particolare, non sono più tenere come lo erano un tempo. L'amore è un'espressione della passione. La tenerezza è un'altra cosa. La passione svanisce, un giorno o l'altro, mentre la tenerezza è immutabile. E' un stato di fatto. Ho l'impressione di non essere abbastanza tenero. Io credo che ciò che chiamo amore nelle mie canzoni sia, in realtà, la tenerezza. Così è sempre stato, ma è solamente oggi che comincio a scorgerlo.


Lei pensa che le donne possano apportare all'uomo qualcosa d'importante? L'equilibrio, per esempio?


No. Le donne non possono apportare all'uomo l'equilibrio semplicemente perché essere stesse prendono sempre più di quello che danno. Loro, alla lunga, rompono il nostro equilibrio, poiché noi siamo obbligati a offrir loro tutto ciò che possediamo. Se stiamo al gioco ci ritroviamo, alla fine dei conti, poveri, sguarniti, vuoti. E, come ci sono degli animali molto forti, nei momenti in cui non le divertiamo più, loro ci lasciano per qualcun altro. Dinanzi al ghiaccio. Rosso alle labbra. Si ricomincia. No, le donne ci danno moltissime cose, è innegabile, ma sicuramente non l'equilibrio.


E' esatto affermare che lei è attratto dalla solitudine?


Si. Vivere solo è un progetto che realizzerò certamente, un giorno. Non si tratta di un desiderio di completa solitudine, ma piuttosto di un modo di vivere in una piccola casa vicino ad una città nella quale potrei recarmi una volta a settimana. Vorrei vivere in ritiro, non fare l'eremita. Agirei anche per evitare un certo numero di malintesi che mi distruggono poco a poco. Sono anche convinto d'essere solo attualmente. Allora dovrei fermare una volta per tutte questo piccolo gioco idiota che consiste di tentare disperatamente di non esserlo più, poiché, in realtà, solo, lo sono forzatamente.


Lei non arriverà mai ad abbandonare la scena. E' un vizio troppo antico.


No, no. Non venite a dirmi questo. Il desiderio di scrivere non potrà mai passarmi, ma giuro che smetterò di cantare il giorno stesso in cui l'avrò deciso. Bisogna allora che io crepi di fame per risalire sulla scena. Poiché non voglio più avere fame. Basta giornate senza potermi fare neanche una doccia. Finito. E se è necessario cantare un mese al Lido di Parigi per vivere tutto l'anno, benissimo, lo farei senza esitazioni, credetemi. E sono sicuro che l'atto di cantare non mi mancherà assolutamente. Ciò che rischio di rimpiangere, al contrario, è il movimento caratteristico a questo tipo di vita.


Lei ha l'impressione d'avere colmato in parte la distanza che esiste tra ciò che lei vorrebbe fare e ciò che fa veramente o, al contrario, questa distanza aumenta progressivamente?


Penso che aumenti non per mancanza di realizzazione dei progetti già esistenti, ma per l'apparizione continua di nuovi desideri. Nel momento in cui si tenta di colmare la distanza, ecco che questa aumenta di poco senza che ce ne rendiamo conto. Detto questo, credo che la mia distanza, quella che esisteva dieci anni fa, è interamente colmata oggi. Ma, sfortunatamente, è probabile che, fino alla morte, avrò sempre dieci anni di ritardo!